Statali, perché la stretta non convince

di Oscar Giannino
Sabato 18 Febbraio 2017, 08:10 - Ultimo agg. 08:13
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 Nuovi segni di affievolimento del vento riformista. Si era visto subito con la capitolazione, appena formato il governo Gentiloni, del Miur alle pretese sindacali: immediato consenso agli insegnanti messi in ruolo di chiedere subito l’avvicinamento a casa, invece di coprire per tre anni almeno le cattedre assegnate laddove mancano. Ieri copione analogo e questa volta pressoché obbligato, perché di mezzo c’è stato il no degli italiani al referendum costituzionale del 4 dicembre, ergo le Regioni non hanno perso i poteri che Renzi voleva riaccentrare a palazzo Chigi.

E la Corte costituzionale aveva a maggior ragione sanzionato i decreti delegati della riforma della Pa, per i quali il governo non aveva ricercato la previa intesa e i formali pareri elaborati dalla Conferenza Stato-Regioni. Ieri, dunque, in ottemperanza alla sanzione della Consulta, sono stati emendati rispetto al testo precedente i decreti della riforma Madia in materia di «furbetti del cartellino», licenziamenti, responsabilità dei dirigenti e azioni disciplinari, nonché quello sulle società partecipate pubbliche. Decreti che ora riprenderanno l’iter parlamentare e in Conferenza-Regioni. Ebbene, la frenata è evidente. Un terzo decreto sulla dirigenza sanitaria era per esempio atteso, ma è stato rinviato.

Perché le Regioni a questo punto non si sognano proprio di farsi dettare dal governo centrale norme prescrittive e restrittive sulla sanità che resta la loro competenza prioritaria in termini di bilancio, mentre con la riforma costituzionale sarebbe stato largamente esteso il potere del ministero, oggi ridotto al finanziamento e alle strutture organizzative ma non tale da impedire a ogni Regione di darsi un suo modello di sanità diverso. La prossima settimana è previsto poi il Testo Unico sui dipendenti pubblici: un codice fondamentale. Avrebbe dovuto indicare i criteri precisi per l’identificazione del salario di merito, le modalità di valutazione secondo metriche quantitative il più possibile concrete sia individualmente sia a livello di unità organizzativa. Ma il governo anche su questo ha già detto ai sindacati che si farà come da sempre loro chiedono: che la legge se ne occupi il meno possibile, perché loro la considerano norma contrattuale, da codefinire al tavolo delle trattative con l’Aran comparto per comparto, e da cogestire a ogni livello nella sua applicazione.

Sappiamo tutti come finirà. La scusa è quella di superare la norma della riforma Brunetta che ne escludeva l’attribuzione al 25% dei meno meritevole dei dipendenti pubblici e la concentrava sul 25% di fascia più virtuosa. Un criterio meccanico poco condivisibile, certo. Ma almeno era volto programmaticamente a evitare il solito spalma-spalma generale tra tutti i dipendenti del salario di merito, indipendentemente da valutazioni vere di produttività ed efficienza: cioè la negazione della stessa idea del merito per tradurlo invece in aumento generale egualitario della retribuzione pubblica. Quanto al licenziamento disciplinare, rispetto al decreto legislativo precedente non cambia quasi nulla. Quarantotto ore per la sospensione e 30 giorni per il licenziamento dei furbetti conclamati, possibilità fino al licenziamento anche per il dirigente che si voltava dall’altra parte, facoltà per la Corte dei Conti di chiedere i danni d’immagine ai licenziati.

Va detto con chiarezza: sono norme che non modifcano poi sostanzialmente quelle pre-esistenti dal 2001 e modificate già nel 2009. Anche con quelle si poteva licenziare, sia pur con un termine più lungo dell’azione disciplinare. L’eventuale differenza si vedrà nei fatti. Se davvero qualcuno incalzerà dall’alto Enti locali e Pa a intervenire con rigore, oppure se continuerà l’andazzo attuale, che vede intervenire ormai stabilmente le procure e la polizia giudiziaria e quasi mai i dirigenti della Pa. Vedere per credere, dunque. Ma finora gli oltre 20 clamorosi casi in tutta Italia di intervento delle procure per assenteismo di massa in Asl e Comuni successivi al primo decreto Madia non fanno proprio ritenere che la Pa sia scossa da timori verso l’efficacia di queste nuove norme. Infine, le partecipate pubbliche.

Che davvero scendano da 9mila a mille come era l’obiettivo del commissario alla spending review, il defenestrato Cottarelli, è davvero difficile crederlo. I criteri di deroga alle norme nazionali da parte delle partecipate regionali, per esempio, sono ammessi con semplice provvedimento da parte del presidente di ogni Regione. Né è prevista alcuna davvero efficace sanzione per chi non dovesse rispettare i nuovi principi affermati. La logica dell’amministratore unico inizialmente prevista è stata infranta. I termini della prima ricognizione generale, di quante siano davvero le società di diverso tipo partecipate localmente, sono stati protratti a fine giugno: ma a bassa voce tutti dicono che non verranno rispettati. Perché da anni l’obbligo di comunicazione al Mef era già vigente, e non rispettato da migliaia degli oltre 10mila enti e soggetti pubblici italiani a cui stava in capo. Da ciò discende infatti che non sappiamo quante siano davvero, le partecipate pubbliche.


Nei diversi data center pubblici si va da 7mila a oltre 10mila, perché nessuno conosce davvero la giungla di partecipate di secondo e terzo grado. Per l’Istat nel 2014 erano 9.867 con 846.383 addetti, ma solo 6927 di esse risultavo davvero attive e con 810.405 addetti. Già questo dato dovrebbe farvi riflettere: implica che 36mila dipendenti erano al 2014 occupati e pagati ma praticamente senza nulla da fare oltre gli obblighi interni amministrativi. Delle società attive, 2979 erano Srl, 2231 Spa, 1364 società consortili, 202 cooperative e 151 tra enti pubblici economici, aziende speciali e aziende di servizi. Vedremo davvero entro un paio d’anni quanto la tanto sbandierata scure di liquidazioni e cessioni fosse solo una leggenda per acchiappar titoli di giornali. Mi limito a fare un solo esempio, a favore dello scetticismo: l’Atac di Roma, da molti anni in perdita per centinaia di milioni ogni anno, rientrava sin dall’inizio nella nuova definizione per cui dopo tre anni di perdite scattava una procedure del Mef per verificare gli estremi del commissariamento, cessione o liquidazione.

Ma alla giunta capitolina pentastellata è bastato far approvare una mozione in Consiglio per escludere ogni volontà di adire davvero una strada di quel genere: «Giù le mani dall’Atac», e tutti i partiti d’accordo… E dire che Cottarelli si disse stracerto che si potevano risparmiare almeno 2 miliardi, agendo con criteri fermi e concreti per disboscare il socialismo municipale in perdita in cui i partiti trafficano incessantemente.
Non vi sfugga che dal decreto di ieri restano esclusi i nuovi requisiti di onorabilità per gli amministratori: sui quali ovviamente gli Enti Locali hanno preteso e ottenuto una concertazione diretta prima di ogni ridefinizione. E ne capirete bene il perché, visto che si tratta sempre di nominati dai partiti, e spessissimo di politici trombati.
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