«Non capisco chi ha deciso l'addio
ma il partito dem sia più incisivo»

«Non capisco chi ha deciso l'addio ma il partito dem sia più incisivo»
di Gigi Di Fiore
Giovedì 23 Febbraio 2017, 08:30 - Ultimo agg. 10:01
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Presidente della Regione Piemonte da due anni, già sindaco di Torino, da militante nel Pci negli anni Settanta del secolo scorso, Sergio Chiamparino ha seguito tutte le evoluzioni e le svolte del partito da Pds, poi Ds e infine Pd. Da iscritto proveniente dall'esperienza del Pci, osserva in modo critico le contrapposizioni e le ipotesi di scissione interne al Pd.

Presidente, Chiamparino, che accade nel Pd?
«Sono il meno indicato a dire cosa accade nel Pd. Vivo e opero in periferia».
Che idea si è fatto, allora, del tormentato momento che attraversa il Pd?
«Faccio qualche premessa. Mi considero più renziano di Renzi, avendo votato sempre per lui anche nelle primarie in cui uscì sconfitto. Mi colloco nell'area dei riformatori e credo di poterla rappresentare, ma sono anche dell'idea che qualche osservazione critica vada fatta».
Si riferisce al voto nel referendum di dicembre?
«Anche, non credo che quel voto sia stato dovuto al caso. Resto dell'idea che il riformismo, che mi ha spinto a fare la mia scelta politica interna al Pd negli ultimi anni, debba avere a cura gli interessi dei più deboli. Un elemento da ritrovare, che va legato evidentemente anche ad una nuova concezione di leadership del partito che dovrà tenere presente gli insegnamenti e le sconfitte degli ultimi mesi».
Le battaglie politiche interne al Pd di questi giorni come crede siano percepite dalla gente?
«Io penso che lo spettacolo che è stato offerto sia deprimente e che la gente lo percepisca solo come una battaglia di potere, non afferrandone i contorni politici».
Chi va via dal partito, lo motiva sostenendo che molti elettori hanno già attuato una loro scissione non votando più per il Pd. Che ne pensa?
«Che sono motivazioni incomprensibili. Se ritengo di poter intercettare quell'elettorato in fuga, a maggior ragione dovrei impegnarmi nel mio partito per recuperarlo, evitando di andare via. Bisogna capire che oggi il voto non nasce da un'idea di appartenenza ad uno schieramento, ma dalle proposte politiche che ogni volta si fanno».
Che prospettive può avere un nuovo partito che nasce dalla scissione nel Pd?
«Quella di un altro partitino, che può avere come obiettivo fare alleanze con il sistema proporzionale».
Condivide gli appelli all'unità, che ha lanciato Fassino?
«È giusto che, con la sua autorevolezza, li abbia fatti. Sono in molti a considerare incomprensibile una scelta di scissione e, per quanto mi riguarda, mi sembra strano che, tra quelli che vanno via, ci sia anche chi mi criticò quando, dimettendomi dalla conferenza delle Regioni perché non condividevo i tagli decisi a Roma sulla sanità, criticai il governo».
Comprende poco, quindi, chi va via per intercettare l'elettorato che non vota più Pd?
«Comprendo più D'Alema che ha spiegato che questo Pd è altra cosa rispetto alla sua idea di partito della sinistra. Capisco meno, invece, chi dice che c'è stata già una scissione di fatto decisa da chi ha smesso di votare il Pd. È una rinuncia al confronto, nel tentativo di far passare la propria linea. Diverso è chi dice è sbagliato stare nel Pd, perchè la sua convinzione si inserisce in una generale riflessione che investe tutta la sinistra in Europa».
Cosa pensa sia stato sbagliato nella gestione Renzi nel Pd?
«Un'idea di leadership poco attenta al confronto, perché bisogna essere consapevoli che si tratta di gestire un gruppo complesso, non omogeneo. La diversità di opinioni è sempre ricchezza e questo va compreso».
Ha fatto bene Michele Emiliano a restare nel Pd, sfidando Renzi?
«Devo dire con sincerità che Emiliano mi appare come l'altra faccia di Renzi, ne è speculare nell'idea che sembra avere della leadership».
E la possibile candidatura anche di Andrea Orlando alla segreteria?
«Avvalora la mia idea di un gruppo complesso, dove esistono sensibilità e visioni differenti in cui ognuno mette la sua passione politica. Il confronto, e quindi anche più candidature, non possono che arricchire il dibattito politico e la vita del Pd».
Come vede la nascita di tanti partiti nell'area che si definisce di sinistra?
«Mi sembra la separazione dell'atomo. Siamo in una realtà che ha perso le antiche categorie che definivano con chiarezza sinistra e destra, concepite nel Novecento. Sono dell'idea che oggi il vero sforzo da fare sia, da Renzi a Vendola, definire in maniera chiara il campo comune in cui confrontarsi. Oggi invece mi sembra si sia nella situazione in cui ognuno si convince di avere in tasca la verità, senza confrontarla con gli altri».
Il nodo resta il concetto di leadership e come si gestisce?
«Sì, sono convinto che sia il vero nodo nel Pd e nella gestione di Renzi. La leadership va intesa in modo più inclusivo, coinvolgendo tutti e spingendoli a portare un contributo che arricchisca il partito e i suoi programmi. In questo modo, si può davvero lanciare una sfida anche a chi vuole lasciare il Pd».
C'è chi dice di volere guardare all'esperienza dell'Ulivo per ricrearla. Crede sia possibile?
«Credo che, nella frammentazione di formazioni che si schierano a sinistra, non sia più possibile. Ognuno vorrebbe far prevalere il suo punto di vista, facendo a gara a dividere. Mi immagino i problemi a creare un gruppo dirigente che condivida degli obiettivi comuni».
È molto critico, dunque, con la moltiplicazione delle sigle politiche?
«Mi sembra che si stia creando una situazione da Brexit. Il rischio di uno sfilacciamento progressivo è reale. Io credo che l'unico campo politico possibile sia quello del riformismo, che va riempito di contenuti che recepiscano bisogni e situazioni concrete».
Si può creare un partito senza una base e un'organizzazione sul territorio?
«Non mi sembra, a quello che sento, che dal territorio arrivino grandi domande di divisione. Ripeto, e l'ho detto anche a Matteo, il rilancio della sua leadership passerà per un congresso che non dovrà ridursi ad una semplice conta di voti. Solo con un congresso in cui si lanceranno chiare e realistiche proposte politiche, si potrà riconquistare una leadership anche nel Paese. E Matteo ha tutte le capacità per farlo».
Nel Mezzogiorno, e a Napoli in particolare, il Pd appare in particolare affanno. Cosa si dovrebbe cambiare?
«Non conosco nei dettagli cosa accade a Napoli. Posso dire genericamente che, anche in questo caso, è importante rimodulare il concetto di leadership che tenga sempre aperta la via del confronto».
In che modo pensa dovrebbe essere impostata la nuova gestione di leadership del partito che nascerà dal congresso?
«Dovrà sicuramente diventare di tipo inclusivo nelle sue proposte, ascoltare di più. A volte, si è avuta l'impressione che i programmi mutassero ogni giorno. Bisogna lavorare tutti per un confronto all'interno di un gruppo complesso che crei le condizioni per far partire una nostra credibile proposta politica».