Ha trascorso l'altra notte, l'ennesima notte insonne dopo quelle della vigilia dell'arresto di Matteo Messina Denaro, partecipando alla perquisizione dell'ultimo covo del boss in pieno centro a Montebello di Mazara. Ora Paolo Guido, che ha coordinato l'inchiesta per la cattura, è nel suo studio scarno al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo e qui, con la porta sempre aperta, ha firmato ieri insieme al procuratore capo De Lucia l'istanza per l'applicazione del carcere duro, il 41 bis subito approvato dal ministro Nordio. «Messina Denaro - sono le parole del pm Guido - potrà fare le sue cure in carcere. Ma lo si potrà mandare anche fuori a fare la chemioterapia». Ovvero la pena non unicamente, secondo il codice peggiore, come vendetta. Sta di fatto che il tipo - questo magistrato 55enne che sta interrogando il vero Andrea Bonafede e a lui il prestanome del boss ha detto: «Con Matteo ci conosciamo da sempre, e le basti questo, dottor Guido» - confida a tutti, o meglio a quei selezionatissimi colleghi e amici con cui parla, di lasciarlo al riparo dalla pubblicità e in quella sfera riservata, che è proprio la sua, di servitore dello Stato che non vuole aizzare le folle e suscitare cori da stadio. Ecco, chi ricorda la celebre foto del pool di Milano, dei Quattro dell'Apocalisse che insieme a Di Pietro solcavano la Galleria di Milano tra le ali di popolo inneggiante al loro eroismo, la deve stracciare per capire l'antropologia culturale, personale, professionale del «dottor Guido».
Uno che in una città in cui i magistrati frequentano i salotti - e sono festaioli: Scarpinato lo è assai - è considerato da tutti l'anti-presenzialista.
E insomma, ci sono pm bravi e professionisti, che spendono i soldi pubblici per indagini vere e fanno l'Antimafia dei fatti, e poi ci sono altri magistrati più portati a montare impalcature. Guido appartiene alla prima categoria. Se non esiste una prova o un indizio che suffraghi un'idea, quella non è una buona idea o, meglio, non è un'idea dimostrabile. Non dovrebbe essere questo il cuore della giustizia? E comunque: Guido, prima e dopo l'incarico del 2017 a coordinare le indagini contro Messina Denaro, ha lavorato tra Trapani e Agrigento sempre in modo silenzioso, senza creare clamore attorno a sé. Poco tempo fa ha raccontato: «Messina Denaro è un boss che impone un pesante controllo mafioso sul suo territorio, ma senza forzare. Si occupa dei grandi affari, e lascia vivere i piccoli commercianti, non li tartassa a differenza di quanto accade in altre zone. Perciò crea consenso e viene mitizzato come un potente che ha grandi auto e belle donne».
Inizialmente, Guido si era occupato dei reati contro la pubblica amministrazione, poi è passato alla criminalità organizzata. Ha seguito anche l'indagine per concorso esterno, poi archiviata, sull'ex presidente del Senato e attuale presidente siciliano, Renato Schifani. E adesso, in un momento in cui la parola trattativa riecheggia di nuovo, a proposito o a sproposito rispetto all'arresto di Messina Denaro («Non c'è stata nessuna trattativa», assicura Guido), acquisisce ulteriore importanza il fatto che a lavorare all'operazione sia stato proprio un magistrato che non ha avallato quello che si rivelò un castello fatto d'aria. Quando invece, come dimostra l'arresto di U Siccu, la giustizia ha disperato bisogno non di vapore ma di sostanza.