Bagnoli, Taranto, Gela e il Sulcis:
la lenta parabola delle fabbriche

Bagnoli, Taranto, Gela e il Sulcis: la lenta parabola delle fabbriche
di Marco Esposito
Sabato 22 Luglio 2017, 08:30 - Ultimo agg. 17:28
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Bagnoli, Taranto, Manfredonia, il Sulcis, Crotone, Milazzo, Gela e ora Augusta-Priolo. Cadono a una a una le aree un tempo industriali del Mezzogiorno colpite dalla difficoltà di tenere insieme produzioni di base (dall'acciaio al petrolchimico) con la tutela dell'equilibrio ambientale. Un tema che non è solo del Sud - la maggioranza dei siti inquinati e delle industrie a rischio incidente rilevante è in Lombardia - ma che nell'Italia meridionale assume un significato particolare per la storica carenza di opportunità d'impiego. E così mentre l'ex triangolo industriale Milano-Torino-Genova si è in parte riconvertito (finanza, comunicazione, moda, innovazione, sviluppo tecnologico...), in Sicilia come in Puglia, Campania, Basilicata sono ancora attuali dilemmi come «salute o lavoro» oppure «industria o turismo».
Il dualismo industria o turismo, un tempo, non si poneva affatto: «Nel quadro di una sana e utile industrializzazione del Mezzogiorno» - si ragionava nel 1948 - è necessaria «la formazione di centri industriali e turistici ben attrezzati, contigui e intercomplementari». Parole di Luigi Sturzo, il sacerdote e politico siciliano. Parole datate, certo, da inquadrare nell'epoca in cui bisognava dare un indirizzo alla ricostruzione nazionale. Ma che mostrano in modo plastico (con quel «contigui e intercomplementari») che la presenza di una fabbrica in riva al mare e di uno stabilimento balneare non erano affatto ritenute attività alternative.

E così nella scelta di Bagnoli (1905) e di Taranto (1965) per l'acciaieria, così come in quella di Siracusa (1949) o Mafredonia (1965) per il petrolchimico furono privilegiate località costiere che per la loro presenza nel cuore del Mediterraneo potevano ben intercettare i traffici mondiali via nave. L'area di Augusta-Priolo a Nord di Siracusa, in particolare, era sulla rotta delle petroliere provenienti dal Golfo Persico, in transito nel Canale di Suez. Il primo impianto della zona fu realizzato da un imprenditore privato, Angelo Moratti, il quale acquistò una vecchia raffineria in Texas, la smontò e la trasportò in Sicilia. E l'area grazie anche ai contributi pubblici divenne presto un vero e proprio polo industriale, in grado di attrarre investimenti che per in quegli anni apparivano innovativi. Come l'Eternit, il materiale «eterno» in fibra d'amianto che sembrava dovesse rivoluzionare l'edilizia. Il primo impianto Eternit del Sud Italia apre nel 1935 a Bari e si chiama Fibronit. Pochi anni e, nel 1939, si inaugura lo stabilimento di Bagnoli. Nel 1955 è la volta di Augusta. Il Nord non è da meno: in Piemonte l'Eternit è a Casale Monferrato dal 1907 e poi ancora in Piemonte, a Cavagnolo, in Emilia a Rubiera, in Lombardia a Broni.

L'amianto uccide, ma lentamente. E solo negli anni Settanta si accerta il legame causa-effetto tra la polvere ignifuga e un cancro letale chiamato mesotelioma. Sono gli anni in cui la cultura ambientalista conquista finalmente le coscienze, oltre che spazio culturale e politico. L'aria e l'acqua non sono più considerati beni di valore nullo, perché disponibili in modo illimitato, bensì risorse preziose da salvaguardare. Così come il paesaggio. Negli anni Ottanta i fumi delle acciaierie di Bagnoli, in uno degli angoli più suggestivi del Golfo di Napoli, diventano il simbolo dell'uso distorto delle risorse ambientali.

E Bagnoli è solo il caso più clamoroso. Ad Augusta sparisce alla vista dei turisti l'antica città greca di Megara Hyblaea, e si deve alla pazienza dell'archeologo Gino Vinicio Gentili la ricostruzione della Dea Madre che allatta (gioiello in mostra a Siracusa) che era stata distrutta in 936 frammenti da un martello pneumatico durante i lavori per la raffineria Esso.

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