Mafia e magistrati
la svolta di Falcone

di Isaia Sales
Martedì 23 Maggio 2017, 08:08
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 Dopo alcuni anni la mafia siciliana torna ad uccidere per strada a Palermo. E lo fa alla vigilia del venticinquesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, di quell’evento spartiacque della storia del nostro Paese. Ciò dovrebbe suggerire di essere cauti nell’accreditare una sconfitta definitiva di Cosa Nostra. Siamo di fronte a un suo indubbio ridimensionamento, non alla sua fine. E questo ridimensionamento è cominciato con Giovanni Falcone e con la generazione di magistrati che lo ha affiancato e poi sostituito.

Quando morì nel 1954 Calogero Vizzini, il capo della mafia siciliana di quell’epoca, comparve sulla rivista giuridica “Processi” il seguente sconvolgente commento di Giuseppe Guido Lo Schiavo, primo presidente della Corte di Cassazione: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine.

Oggi si fa il nome di un autorevole successore di Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alla legge dello Stato e al miglioramento sociale della collettività». Che dire di queste affermazioni di uno dei massimi esponenti della magistratura italiana di allora, per di più siciliano? Intanto che i magistrati sapevano già chi sarebbe stato il successore di Vizzini, cioè Giuseppe Genco Russo, e non vanno ad arrestarlo, anzi lo elogiano («autorevole successore»), perché non lo considerano un fuorilegge, così come non considerano tale il Vizzini, né tantomeno la mafia siciliana un’associazione a delinquere. Questo articolo non fece scalpore, il magistrato non fu richiamato, il suo parere non contrastato, né si usò verso di lui alcuna misura disciplinare.

Il suo scritto fu considerato «normale» perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia avevano di Cosa nostra. Era l’epoca in cui il procuratore di Caltanissetta, Busuito, seduto al circolo dei civili, si alzava e andava incontro allo stesso Calogero Vizzini, a quell’epoca imputato, per salutarlo con deferenza davanti a tutta la città. Il parere di Lo Schiavo era condiviso da un notevole numero di magistrati che non aveva timore di dichiarare pubblicamente che la mafia non solo non era un problema ma addirittura era una «forza d’ordine», un’organizzazione che collaborava con le forze di sicurezza dello Stato, cioè anche con i magistrati. Significativo il fatto che nel secondo dopoguerra in Sicilia i riferimenti alla mafia sono appena accennati o del tutto rassicuranti nelle prime relazioni dei procuratori generali alle inaugurazioni dell’anno giudiziario.

Nel 1965 due membri della commissione parlamentare antimafia, Giovanni Elkan e Mario Assennato, svolsero un’approfondita indagine per verificare la causa dei numerosissimi casi in Sicilia di assoluzione per insufficienza di prove e di archiviazione delle denunce anche di fronte a prove schiaccianti, e misero per iscritto che si trattava di qualcosa di abnorme e di ingiustificato. Nello stesso 1965, Tito Parlatore, procuratore generale della Cassazione, aveva sentenziato (a proposito dell’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale) che la mafia non era materia da tribunali, ma tutt’al più «materia per conferenze». Rileggendo queste posizioni appare del tutto chiaro perché Giovanni Falcone rappresenti una radicale contrapposizione a questa magistratura ancella del potere politico e sostenitrice del valore «d’ordine» della mafia.

Con Falcone finisce l’epoca della impunità della mafia che era durata per più di un secolo e mezzo. Già prima di lui alcuni altri magistrati, totalmente isolati, avevano avviato un tentativo di inversione di tendenza (Rocco Chinnici, Giovanni Costa, Cesare Terranova) ma le cose cambieranno radicalmente quando una nuova generazione di magistrati sostituisce quella che in gran parte giustificava la mafia. Il formalismo giuridico è stato nel tempo uno degli strumenti più utilizzati dalla magistratura per smontare i processi i mafiosi. Ciò avveniva soprattutto in Cassazione, grazie anche all’opera del giudice Corrado Carnevale. Il giudizio di Giovanni Falcone su Carnevale era spietato. Perciò si adoperò affinché non fosse sempre lui a giudicare le sentenze che riguardavano i mafiosi. E fu necessario un provvedimento legislativo ad hoc per ottenere la rotazione delle attribuzione in Cassazione nei processi di mafia.

Dunque, nella storia delle mafie (e nella storia del loro successo) la giustizia e i suoi palazzi e i suoi uomini non hanno certo giocato un ruolo marginale, anzi. Giuseppe Ayala racconta che un magistrato di Palermo rivolse questa domanda a Giovanni Falcone: «Ma tu sei sicuro che la mafia esiste?». Il campo dell’antimafia oggi è monopolizzato dai magistrati. E questo iper-protagonismo dei giudici non è unanimemente considerato come un fatto positivo. Non era affatto così fino alla fine degli anni ’70 del Novecento. L’inversione di tendenza della magistratura nel campo della lotta alle mafie è un fatto recente, e non sempre acquisito una volta per tutte. Non dimentichiamo che quando Buscetta decise di collaborare disse a Falcone: «Io parlo perché c’è lei; con altri giudici non avrei parlato».

A cosa è stata dovuta questa radicale inversione di tendenza che ha rotto con gli equilibri precedenti? È l’ingresso nella magistratura di una nuova leva di magistrati formatisi nella temperie della contestazione studentesca del 1968 a cambiare le cose, rompendo con la tradizione di una professione che si passava di padre in figlio, e soprattutto rompendo con la sudditanza al potere politico.
Servire lo Stato non è più servire gli interessi delle classi dirigenti e possidenti. Si forma così la prima generazione di magistrati per i quali la legge non coincide con gli interessi della propria classe sociale, la prima generazione con un senso dello Stato del tutto diverso da quella di prima. Da questo punto di vista si può considerare la scolarizzazione di massa come l’unica vera rivoluzione prodottasi nel Sud in epoca recente. E Giovanni Falcone lo ha dimostrato.
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