Ma siamo ancora
un Paese per vecchi

di Oscar Giannino
Giovedì 29 Giugno 2017, 08:11
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Ai mille delegati della Cisl che si avviavano al loro congresso, papa Francesco ha ieri riservato un discorso dei suoi. Tutto dedicato alla dignità del lavoro e al ruolo del sindacato. «Ci ha indicato due valori, profezia e innovazione», ha sintetizzato il più moderno dei dirigenti Cisl, Marco Bentivogli, a capo dei metalmeccanici. E va ricordato sempre. Quando un papa indica ai sindacalisti di non dimenticare la profezia cristiana della centralità dell’uomo, della sua dignità e libertà, svolge la sua opera di pastore della Chiesa. 


Pretendere di giudicarne parole e contenuto usando i criteri dell’econometria non è velleitario, è sbagliato in radice. Oltretutto ogni papa è innanzitutto un uomo, con il suo peculiare bagaglio di cultura ed esperienza, fede e priorità di evangelizzazione. Giovanni Paolo II ci regalò nell’enciclica Centesimus Annus una delle più monumentali ed equilibrate difese del valore dell’economia di mercato, al servizio delle libertà dell’uomo e della sua vocazione a felicità e benessere.

Ma Wojtyla veniva dallo strazio sommato dell’esperienza del nazismo e del comunismo europei. Papa Bergoglio si è forgiato nelle periferie brulicanti di poveri dell’Argentina e dell’America Latina, quelle «periferie esistenziali» a cui ieri non a caso ha richiamato la Cisl, ed è alle diseguaglianze e ai poveri che va costantemente la sua attenzione. Non ha dell’economia di mercato lo stesso giudizio di Wojtyla, ma dietro c’è un enorme perché. Il mondo non è eurocentrico, e comunque i poveri negli ultimi anni sono tornati a crescere anche da noi. Teniamo a mente queste premesse, rileggendo il discorso ieri del papa. La sua condanna delle pensioni d’oro, il suo sdegno per quelle basse che non assicurano in Italia se non povertà. L’impegno per la parità delle donne nel lavoro, cominciando però dalla parità delle retribuzioni «dal basso», non dal numero delle manager «in alto».

E questo spiega anche perché papa Francesco si sia lanciato nella singolare perorazione del diritto all’ozio, contro il lavoro vissuto come schiavitù, e che alcuni nel dibattito italiano credono di tradurre nell’opporsi alle aperture domenicali degli esercizi commerciali. Ma spiega anche la sua improvvisa e aspra sferzata ai sindacati, «diventati troppo simili ai partiti politici». E sa Dio se non è vero, in Italia. Il passaggio destinato a far più discutere è però stato un altro. Quello dedicato, per capirci in due parole, alla riforma Fornero delle pensioni. «È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo, e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare, quando dovrebbero farlo per loro e per tutti», ha detto papa Francesco. Invocando «un nuovo patto sociale, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per permettere ai giovani, che ne hanno il diritto-dovere, di lavorare». Si capisce che lo pensi il papa. E, apparentemente, sembra puro buon senso.

Potentemente cavalcato per altro da sindacalisti e politici, che infatti tenacemente chiedono a questo scopo di prepensionare i lavoratori rispetto ai più alti tetti previsti dalla riforma Fornero per l’assegno previdenziale. Ed è per questo che da anni, dalla staffetta generazionale varata dal governo Letta fino all’Ape e Ape social varato nell’ultima finanziaria, nonché con innumerevoli “salvaguardie” destinate allo stesso fine anche se immaginificamente travestite da interventi dovuti per le vittime della riforma rimaste senza lavoro e senza pensione, la politica italiana ha cominciato una tenace e costosa marcia indietro sull’età pensionabile. Ma nella realtà le cose stanno veramente come ha detto il papa? Abbiamo l’evidenza manifesta in Italia, visto che ogni mercato del lavoro ha regole diverse, che tornando a mandare in pensione lavoratori meno anziani si liberino posti per i giovani? La risposta a questa domanda è no.

All’interno del giornale trovate illustrate diverse ricerche che analizzano la questione, ed effettivamente se ne trovano sia a favore, sia contro. Ma ad esser sbagliate sono due premesse. La prima è credere che il numero di occupati sia come una torta fissa, della quale basta levare la fetta a qualcuno per darla a un altro. Non è così. L’economia di un Paese è un corpo vivo, che evolve e reagisce nel tempo senza mai essere ferma. Il secondo errore è la monocausalità. Cioè credere che la propensione ad assumere giovani possa dipendere solo dal numero di posti in organico liberati dai pensionati. Non è così: la scelta delle coorti anagrafiche a cui si orienta la domanda di lavoro dipende da una pluralità di fattori. Perciò in questi anni di crescita asfittica italiana la ripresa degli occupati si è concentrata nella fascia d’età degli over 50, mentre è drammaticamente mancata per chi era più giovane.


In un Paese ad altissima pressione fiscale sul reddito lordo d’impresa, in cui le tutele al posto di lavoro restano quelle rigide del vecchio articolo 18 per tutti coloro il cui contratto era precedente al Jobs Act, e con basse competenze tecniche e professionali garantite dalla scuola e dall’università pubblica, il freno all’occupazione giovanile viene esercitata molto di più da questi fattori, che dalla coorte di pensionandi annuale. Non c’è un effetto di sostituzione automatico tra chi esce e chi entra, c’è una scelta che l’imprenditore fa guardando concretamente a chi assume. Se si tratta di giovani integralmente da formare, preferisce comunque contratti a tempo, come si vede esaurito l’effetto dei maxi incentivi contributivi garantiti nei primi due anni post Jobs Act. Perché in quel modo ritiene di giudicare meglio a chi riservare il tempo indeterminato, a bassa retribuzione netta per chi la intasca, ma ad altissima in termini lordi per l’impresa. Ecco, questa dovrebbe essere l’interpretazione da dare alle parole del papa.

Quel nuovo patto che ha invocato ieri a difesa dei giovani serve eccome.
L’Italia dovrebbe davvero considerarla un’emergenza, l’ingiustizia intergenerazionale. Per combatterla serve un fisco meno ostile ai giovani, alle famiglie e ai figli. Un welfare ricentrato sulle politiche attive del lavoro, non sul ritorno alla Cig in deroga che chiedono i sindacati. E su una riforma della scuola e dell’università non per chi ci lavora, ma per chi la frequenta. Non commettiamo dunque l’errore di misurare papa Francesco sulla base dei paper degli economisti. Ma abbracciamo il suo invito a una nuova priorità: un Paese in cui i più giovani vedono da 15 anni perdere reddito e patrimonio rispetto agli over 65 anni, è un Paese finito. In questo, Bergoglio ha mille volte ragione.
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