La sinistra non torni al passato

di Pietro Reichlin
Venerdì 17 Febbraio 2017, 08:02 - Ultimo agg. 08:13
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 La vittoria di Trump e la crescita dei partiti populisti sono il riflesso del disagio sociale provocato dalla globalizzazione e dall'immigrazione. Secondo i dati forniti da Milanovic in un recente saggio sui mutamenti nella distribuzione mondiale del reddito, le classi medio-basse dei settori tradizionali dei paesi occidentali (operai e impiegati) hanno «perso» il treno della globalizzazione, cioè subìto stagnazione dei redditi e difficoltà di re-impiego per chi ha perso il lavoro. A ciò si aggiunge una crisi d'identità (o di status) dovuta alle ondate migratorie e al progresso tecnico. I tradizionali corpi intermedi, e principalmente il sindacato, sono oggi più deboli che nel passato, per cause che dipendono dall'integrazione commerciale, dal calo impressionante dell'occupazione nel settore manifatturiero e dall'avanzata delle nuove tecnologie, che riducono la domanda di lavoro meno qualificato.

Questi fenomeni non sono una novità (vanno avanti da oltre vent'anni), ma i partiti politici tradizionali sono stati colti di sorpresa dalla crescita della nuova destra «identitaria» e populista che fa leva sullo scontento. Oggi prevale una visione troppo semplicistica di queste vicende. Si afferma, cioè, che questi fenomeni siano la naturale conseguenza delle ricette «liberiste» e della ritirata dello Stato dall'economia. Sarebbe necessario, quindi, rivalutare i benefici di un maggiore controllo del mercato e dei meccanismi di mercato. Un eccesso di entusiasmo per la deregolamentazione è certamente avvenuto, ed è tra le cause della crisi del 2008, ma la realtà dei fatti è ben più complicata. In particolare, vi sono almeno due punti rilevanti da considerare.


Per prima cosa, non è evidente che, nell’occidente industrializzato, sia avvenuta una ritirata dello Stato. A dispetto delle rappresentazioni ideologiche della realtà, la spesa sociale e la pressione fiscale sono mediamente aumentate e il debito pubblico ha raggiunto quasi ovunque livelli mai toccati nel recente passato. In secondo luogo, la risposta degli Stati ai processi di globalizzazione non è stata uniforme. Esistono modelli vincenti e perdenti. Tra questi ultimi metterei certamente il modello sociale dell’Europa Mediterranea (Italia, Spagna, Grecia), dove un welfare sbilanciato e poco universale si accompagna a un mercato duale (fatto di rigidità e protezioni elevate solo per una parte della forza lavoro) e a un’alta evasione fiscale e contributiva. Viceversa, i paesi dell’Europa del nord e continentale hanno dimostrato, in quest’ultimo decennio, che è possibile conciliare equità, alti livelli occupazionali e apertura commerciale.

I paesi scandinavi e la Germania hanno mantenuto intatta la propria forza economica (soprattutto nel manifatturiero), ridotto drasticamente i tassi di disoccupazione e contenuto i disavanzi fiscali, anche di fronte alla crisi e alla concorrenza mondiale. Tutto ciò ha premiato i partiti di governo e lasciato meno spazio ai populismi, nonostante la presenza, non irrilevante, dei movimenti xenofobi. Questa capacità di resistenza è il frutto di un adeguamento del modello socialdemocratico ai mutamenti economici e, soprattutto, segue dall’idea che occorre cedere sul lato della flessibilità del mercato garantendo, però, un livello adeguato di ammortizzatori sociali per tutti e l’intensificazione delle politiche attive del lavoro (riqualificazione, aggiornamento).


In Germania si è aperta la strada al decentramento concordato della contrattazione e alla diffusione di contratti più precari per facilitare l’inserimento dei giovani sul mercato. Questo sistema, spesso denominato di flex-security, si basa sull’idea che occorre difendere il lavoratore piuttosto che il posto di lavoro, per aiutare i processi di ristrutturazione e l’innovazione, cioè gli elementi che garantiscono la competitività delle economie sviluppate. Io credo che occorra sfuggire a una lettura univoca e semplicista delle vicende politiche ed economiche di questi ultimi anni. Il disagio sociale che ha rafforzato la nuova destra populista non può essere curato ritornando alle ricette del passato e non siamo di fronte a semplice remake dello scontro tra liberismo e socialdemocrazia. Evitare questi errori è tanto più importante per l’Italia, un paese con ampi divari territoriali, una prevalenza di micro-imprese e un grave ritardo sul fronte dell’innovazione tecnologica.

Le riforme del mercato del lavoro degli anni ’90 hanno consentito di aumentare l’occupazione nel periodo pre-crisi, ma hanno prodotto un eccesso di precarietà (soprattutto tra i giovani) perché sono mancate le riforme del welfare e della contrattazione da cui dipende il successo della flex-security, come l’estensione degli ammortizzatori ai lavoratori atipici, il decentramento della contrattazione e le politiche attive del lavoro.
Il Job Act consente ora ai giovani di entrare sul mercato del lavoro dalla porta principale, cioè con contratti a tempo indeterminato e le tutele che esso comporta, anziché con contratti a termine e senza diritti. Ma molto altro rimane da fare per adeguare il nostro mercato del lavoro alle esigenze di un’economia aperta e competitiva.
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