L’ignoranza che genera
l’apologia del fascismo

di Bruno Vespa
Lunedì 17 Luglio 2017, 08:28 - Ultimo agg. 08:30
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Quale significato dobbiamo attribuire al rilancio del reato di apologia del fascismo e alla proposta di abbattere addirittura i simboli residui del regime, compresi alcuni edifici pubblici? La legge Scelba prevede multe e condanne fino a due anni di carcere per chi voglia ricostituire il partito fascista o ne esalti metodi ed esponenti. Quella legge è del ’52, appena sette anni dopo la caduta della Repubblica di Salò.

Le ferite della guerra civile erano sanguinanti, vittime e carnefici abitavano nelle stesse città, il ghetto di Roma vedeva aggirarsi le ombre dei 1007 ebrei che non erano tornati a casa dopo il rastrellamento del 16 ottobre 1943. Sessantacinque anni dopo quella legge, resta consegnata alla storia l’enorme responsabilità di Mussolini che con le leggi razziali consegnò alla morte seimila ebrei italiani e con l’entrata in guerra portò il paese alla rovina. Ma se il parlamento di Scelba pensò di non punire la vendita di gadget fascisti, considerando fin da allora la Repubblica sufficientemente forte da sopportarli, dobbiamo farlo adesso? Davanti ai magazzini Gum di Mosca mimi mascherati da Stalin si fanno fotografare con i turisti e nei negozi di souvenir si trova di tutto che lo riguardi. Il «Piccolo Padre» ammise con Churchill di aver dovuto sterminare dieci milioni di contadini che si opponevano alle sue riforme e il conto globale porta almeno al doppio di vittime. «Un morto è un uomo – diceva -. Un milione di morti è una statistica».

La stravagante proposta di abbattere i simboli architettonici del fascismo apre una questione dolorosa per i politici cresciuti e operanti in democrazia. Mussolini è stato (purtroppo) l’ultimo urbanista di Roma e non solo. I maggiori ingegneri e architetti del tempo, poi in larga parte ricollocatisi nel Pci, si misero a disposizione del Duce per costruire quelli che nella contabilità del fascio comunista Antonio Pennacchi furono 147 città e borghi. Nel 1938 – l’anno delle sciagurate e fatali leggi razziali – Mussolini presentò il progetto dell’Expo 1942, l’Olimpiade della Civiltà che avrebbe dovuto mostrare al mondo la nuova grandezza di Roma. I lavori andarono avanti a un ritmo tale che dopo quattro anni, quando dovettero fermarsi perché la guerra andava male, era stato costruito l’intero quartiere dell’Eur, a cominciare dal Palazzo della Civiltà del Lavoro. Nacquero in quegli anni complessi di grande funzionalità ed eleganza come la città universitaria della Sapienza e gli attuali ministeri degli Esteri alla Farnesina e dell’Industria in via Veneto, arricchiti da opere dei maggiori artisti del tempo, generosamente finanziati dal ministero della Cultura popolare. Senza dimenticare la Bonifica Pontina che procurò a Mussolini l’ammirazione internazionale («Potessimo fare noi quello che fa lui senza avere le rotture di scatole della stampa…», sbottò uno stretto collaboratore di Roosevelt). Invece di pensare di abbattere i monumenti fascisti, oggi dovremmo chiederci perché un intero elegante quartiere fu costruito in quattro anni, mentre oggi nello stesso tempo non si riesce nemmeno ad approntare un progetto di massima. Il fascismo fu questo, fu la settimana di 40 ore lavorative, fu l’Iri e tanti altri enti pubblici economici che salvarono il sistema bancario, fu l’Inps, l’Inail, le colonie per centinaia di migliaia di bambini che mai avevano visto il mare.

Ma fu anche dittatura severa, con una intellighenzia autorevole, ma ridotta, e una base di pagliacci incolti, capaci solo di manganello e olio di ricino, di salti nel fuoco e slogan caricaturali. Chi oggi inneggia al fascismo ne evoca la parte peggiore. Ne studiasse la parte migliore, potrebbe rendersi utile a una discussione serena, senza sfiorare i limiti di una impensabile apologia.

 
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