Fazio, i veleni e la verità perduta

di Massimo Adinolfi
Domenica 25 Giugno 2017, 19:32
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La conclusione della telenovela Fazio (un contratto di 11 milioni per 4 anni) non è certo la conclusione della vicenda Rai. È, piuttosto, una cartina di tornasole della difficoltà dell’azienda. Il nuovo direttore generale, Mario Orfeo, ha dovuto prendere una decisione in condizioni di necessità: a poche settimane dal suo insediamento, non poteva certo permettersi, per via del tetto degli stipendi, di perdere al buio uno dei volti storici della Rai, senza aver avuto il tempo di delineare strategie alternative. Il che però dimostra una cosa soltanto: che strategie alternative ci vogliono, che un’altra televisione deve essere possibile e che Orfeo dovrà cominciare a lavorarci. Va bene dire che Fazio è la Rai, ma solo se significa che Fazio è Fazio grazie alla Rai, e non viceversa che la Rai è la Rai grazie a Fabio Fazio.

Roberto Fico, il Presidente della Vigilanza Rai, parlando di Fazio ha scomodato una figura tradizionale dell'armamentario polemico populista: quella dei comunisti col cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Detta da lui, non è chiaro però cosa sia più grave: che Fazio sia comunista (cioè di sinistra, comunista è solo l'espressione denigratoria), o che tenga al portafoglio. Questa comunque è attualmente la linea del Movimento Cinque Stelle, fatta di uscite demagogiche contro l'establishment delle banche, della Rai e dei partiti: cosa c'è di peggio, infatti, nel Paese?

Ma non è facendo di tutta l'erba un fascio che si potrà mettere mano a una ristrutturazione del servizio pubblico. Il servizio pubblico deve informare, deve realizzare prodotti di qualità nell'ambito dello spettacolo e dell'entertainment, deve offrire una palestra per nuove idee e nuovi programmi; deve tenere il passo dell'innovazione in un settore che la Rete sta profondamente rivoluzionando. Sono sfide enormi. La Rai viene dalle dimissioni del direttore editoriale Verdelli e dalla bocciatura del suo progetto di riforma e, poi, dalle dimissioni del direttore generale Campo Dall'orto, e dalla medesima disavventura toccata in sorte alla sua proposta editoriale. Cosa vorrà fare Orfeo? Ma più ancora ci si dovrebbe sintonizzare con un'altra domanda: cosa vuol fare il Paese della televisione? «Tra trent'anni diceva Ennio Flaiano l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, ma come l'avrà fatta la TV»: non stiamo parlando dunque dei capricci di una star, di stipendi fuori mercato o in linea col mercato, ma del centro nevralgico dello spazio pubblico che la tv generalista ancora occupa nel Paese. Coi suoi tredici canali televisivi, i suoi centri di produzione, le sedi regionali, i tredicimila dipendenti, stiamo parlando di un'azienda culturale che costituisce parte essenziale dell'identità nazionale.

Ebbene, in tutta la vicenda che ha riguardato il rinnovo del contratto con il volto più noto di Rai Tre (passato a Rai 1 con un robusto adeguamento di stipendio), il Paese ha discusso di cosa? Dell'enorme sperequazione fra gli stipendi di un divo della televisione e quelli di un normale lavoratore? (Sai la novità). Del rispetto della legge sul tetto massimo alle retribuzioni nel settore pubblico, e di come aggirarlo? Di limiti del mercato, di giustizia e moralità? Benissimo. Ma una volta che ci saremmo fatte le nostre opinioni sull'avidità o sulla professionalità di Fazio, non sarà il caso di guardare oltre il dito, al modo in cui si confezionano i programmi, si produce informazione, si mescola informazione e intrattenimento, si mescola informazione, intrattenimento e chiacchiera nei talk show, e insomma si rinuncia alla pretesa, nientemeno, di dire la verità?

L'ho detta grossa? La verità è un fuoco bimillenario che si è ormai spento del tutto, come diceva il filosofo? Ma se non si capisce più se «Che tempo che fa» di Fazio sia un programma giornalistico o uno spettacolo, e il suo conduttore artista o giornalista, se addirittura questa confusione di spazi e di generi di discorso viene rivendicata, non sarà oltre che per la faccenda dei compensi perché si è rinunciato da tempo al dovere di dire la verità le cose come stanno? Di cercarla, certo, di discuterne criticamente e di dare voce al pluralismo delle interpretazioni, ma senza per questo astenersi dal tentativo di accordare l'opinione alla verità, le parole alle cose, i segni ai significati. Perché con la scusa di fare gli scettici, gli ironici e i postmoderni facciamo finta di ignorare che la rinuncia alla verità è, molto spesso, solo un'ammiccante ipocrisia verso il padrone di turno. Baudrillard diceva che per la televisione, «il mondo è solo un'ipotesi come un'altra». Ecco: a volte sembra che in Rai si voglia a tutti i costi dare ragione a Baudrillard, e torto al mondo.

Prendete Santoro, al suo ennesimo ritorno televisivo, che l'altra sera ha provato a spettacolarizzare il mostro: Hitler. C'erano in trasmissione le opinioni autorevoli, ma c'erano pure le opinioni da bar; c'era una nuova mescolanza dei generi, non però per produrre quelle evidenze che nascano solo dal cozzo fra i linguaggi, ma per allestire una posticcia confusione teatrale. Una sorta di wagnerismo di cartapesta, di teatro nell'accezione più enfatica e più melodrammatica del termine.

Ma che discorsi sono questi!, dirà il mio benevolo lettore. Senza sapere che un tempo erano questi i discorsi che si facevano, e che si dovrebbe tornare a fare. Non per avere stipendi più bassi: quelli devono dipendere da una politica che l'azienda può darsi, come può darsela perfino una squadra di calcio, senza necessariamente finire in zona retrocessione. Ma per avere consapevolezza di cosa significhi fare televisione, parlare al Paese, fornire notizie e fare vero approfondimento. Mobilitando energie creative e intellettuali, costruendo argini di autorevolezza, mettendo nuovi programmi tra le mani di nuovi professionisti, un po' meno leccati o meno imbolsiti di quelli che, gira e rigira, tornano sempre di nuovo.
 
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