Esportare la spazzatura, la scelta che costa di più

di Davide Tabarelli
Venerdì 10 Novembre 2017, 07:12 - Ultimo agg. 08:08
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I rifiuti in Italia sono una metafora del sistema Paese: burocrazia asfissiante, peso enorme delle amministrazione pubbliche, regolazione confusa, costi opachi, molti privati scaltri e, alla fine, risultati deludenti.

Chi lo certifica è l’Ispra che, ogni anno intorno a novembre, pubblica il suo rapporto sui rifiuti, così denso di cifre e dettagli da nascondere le cose importanti. Nell’ultimo, pubblicato lo scorso lunedì, emergono, per chi ha pazienza, alcune conferme delle nostre strutturali debolezze. La produzione di rifiuti urbani, quelli su cui si concentrano le maggiori attenzioni e difficoltà della politica e dei cittadini, sono in aumento nel 2016, per la prima volta dal 2010, a 30,1 milioni di tonnellate, nonostante un’economia che arranca e con enormi sforzi volti alla loro riduzione. In termini pro capite siamo poco sotto la media europea di 480 chili per persona, ma molto inferiori rispetto ai Paesi ricchi del Nord Europa, che viaggiano abbondantemente sopra i 600 chili.

L’anomalia eclatante riguarda la difficoltà in Italia di fare il recupero termico, con quelli che elegantemente sono chiamati termovalorizzatori, in maniera più cruda inceneritori, mentre le discariche, che tutti vorremmo chiudere, continuano ad essere lo sbocco principale in molte aree del Sud. La regola semplice e indiscutibile è che, per chiudere il cerchio, quello dell’economia circolare, occorre il recupero dell’energia che sta nei rifiuti, quando questi non possono più essere riciclati, come nel caso di un pannolino di un bambino, o di uno straccio usato per anni. L’Italia manda in discarica ancora il 29% dei suoi rifiuti, contro lo zero della Germania, mentre di recupero termico ne fa solo il 18%, contro il 32% della Germania. Per fare un buon riciclaggio, come fa la Germania con il 49%, contro il 32% dell’Italia, occorre proprio la possibilità di liberare grandi volumi di materiale attraverso gli inceneritori e distinguerlo nettamente da quello che può essere impiegato di nuovo. Come sempre, le differenze all’interno dell’Italia sono enormi, con le regioni del Nord che hanno una situazione non distante da quella del Nord Europa, mentre il Sud si stacca nettamente, sia per assenza di inceneritori, che per massiccio ricorso alla discarica. Impressiona che la Sicilia, grande quasi quanto la Danimarca, non abbia ancora un inceneritore.

Spicca la Campania, che è riuscita ad azzerare il ricorso a discarica e che ha il solo grande impianto di recupero termico di tutto il Sud, quello di Acerra, non in grado, però, di assorbire tutto il flusso generato. Fra le centinaia di tabelle di Ispra, si scopre così che la Campagna primeggia per esportazioni all’estero di rifiuti, con oltre 100mila tonnellate nel 2016, verso Paesi dove vengono bruciati per fare energia che scalda tedeschi, austriaci o olandesi, non gratis, ma anche con il beneficio di 150 euro pagate dai cittadini italiani per fare il trasporto. Magra consolazione è che lo stesso, per volumi di molto inferiori, accade per la città di Roma. Le statistiche non riportano i flussi fra le regioni italiane, in particolare dalle aree urbane di Napoli e Roma verso gli inceneritori del Nord, i cui costi e l’inquinamento da trasporto sono pari a quelli delle esportazioni verso altri Paesi. Che vi siano in Europa regioni che ancora devono trasportare per migliaia di chilometri i propri rifiuti è a dir poco paradossale. Ovviamente occorre fare di più sulla differenziata e sul riciclo, ma è indispensabile e utile fare quegli inceneritori, o termovalorizzatori, di cui si parla da anni. Buttare in discarica 8 milioni di tonnellate di rifiuti, soprattutto al Sud, significa fare male al territorio e buttare via miliardi di euro di energia. Un’altra occasione di riscatto del Sud.
 
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