Dove nasce la corruzione in Italia

di Isaia Sales
Giovedì 12 Ottobre 2017, 09:41 - Ultimo agg. 09:42
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Il persistere di un uso quotidiano della corruzione induce a domandarci perché essa ha una così lunga vita nella storia del nostro paese.  E anche come mai resiste ad ogni epoca e a ogni regime politico. Come mai in questo campo, come in quello delle mafie, non si riesce a trovare niente di veramente dissuasivo, niente che non si limiti a contenerla ma che provi a distruggerla nel costume, nel comportamento, nell'atteggiamento degli attori coinvolti?

Semplicemente perché non si tratta di una deviazione ma di una regola, non di un crimine occasionale ma di un sistema, non di episodi limitati nel tempo ma di meccanismi strutturali perduranti. L'andamento costante della corruzione è segnato da un' unica differenza: che in alcuni periodi la si scopre di più e in altri meno, ma essa resta il reato occulto e permanente della storia italiana. La continuità è data dal fatto che in tempi diversi si possono trovare le stesse persone coinvolte, le stesse imprese e gli stessi enti o uffici pubblici. Cosa ancora più impressionante è constatare come i settori tipici della corruzione restino gli stessi (edilizia, lavori pubblici, sanità e forniture), con qualche ampliamento dovuto a nuove attività economiche regolati dalle pubbliche funzioni. E identiche le categorie sociali coinvolte: la burocrazia, la politica e l'imprenditoria.

Nel campo della corruzione, dunque, trova piena rispondenza la teoria criminologica di Edwin Sutherland sui cosiddetti colletti bianchi. La criminalità, cioè, non è appannaggio esclusivo delle classi meno abbienti ma è presente anche nelle alte sfere della società. Tutti i comportamenti, tanto quelli devianti quanto quelli conformi alla legge, sono appresi in relazione con gli altri. La criminalità dei colletti bianchi è introitata proprio perché essa è assai diffusa nel mondo degli affari, ovvero in gruppi di persone che riconoscono regole differenti da quelle vigenti.

Da questo punto di vista mi sembra che anche per la corruzione si può applicare la teoria di Santi Romano sugli ordinamenti giuridici plurimi, che egli applica alla mafia, perché anche la corruzione è dotata di proprie regole, apposite sanzioni per chi non le rispetta, propria sub-cultura, e specifica tassazione. Con una differenza sostanziale: che i mafiosi sono ufficialmente dei criminali, sono dei fuorilegge, mentre i corrotti e i corruttori sono in gran parte uomini della legge e delle istituzioni, sono piccole, medie e grandi imprese che nei convegni parlano di credere nella necessità assoluta della concorrenza, ma si comportano esattamente al contrario. O liberi professionisti che si arrogano la libertà di muoversi fuori dalla legge. La corruzione, dunque, è reato dei potenti o di chi ha il potere che gli deriva da una funzione pubblica, o da chi ha un potere economico e si relaziona con la pubblica amministrazione. Chi corrompe o si fa corrompere non viene certo dai bassifondi della società.

Per me non è convincente l'idea largamente diffusa che la corruzione sarebbe causata da leggi eccessive e oscure, dalla lentezza e dalla farraginosità delle procedure. Secondo questa teoria, gli imprenditori che pagano sarebbero spinti proprio dall'impulso imprenditoriale a recuperare i ritardi pagando un costo. Sono convinto che anche con leggi chiarissime e tempi rapidi nelle decisioni la corruzione continuerebbe ad esistere. Il caso della sanità in Lombardia lo dimostra: un sistema mediamente efficiente ma in più parti corrotto. Si tratta di giustificazioni (non di spiegazioni) che fanno parte di quell'armamentario ideologico che ogni sistema di aggiramento delle leggi deve possedere per ergersi ad ordinatore di un sistema non altrimenti funzionante.
Così come si è dimostrata del tutto sbagliata la previsione che un maggiore decentramento di funzioni dai ministeri verso gli enti locali avrebbe ridotto la corruzione, mentre l'ha solo ampliata. Ma ritenere che la corruzione sia un prodotto dei maggiori poteri locali vuol dire andare fuori strada. È un ulteriore effetto non la causa.

Anche l'idea (o l'ideologia) che la presenza dei privati in alcune funzioni e servizi pubblici avrebbe rallentato la pressione corruttiva sulle strutture pubbliche si è dimostrata infondata. Con la presenza di privati nel pubblico è cambiata la qualità della corruzione non la sua intensità. Se prima esisteva solo la mazzetta, ora diversi funzionari pubblici sono stipendiati direttamente dalle ditte.

Il mio parere è che i corrotti e i corruttori non dimostrano semplicemente una scarsa considerazione della legge, ma obbediscano a una loro specifica legge. Chi vende il proprio ruolo è consapevole che gli altri considerano la sua funzione un potere e non un dovere, e perciò gli attribuiscono un prezzo. La corruzione è, perciò, una privatizzazione e monetizzazione di un potere pubblico. Secondo il codice di comportamento di corrotti e corruttori, il potere va pagato se agevola le transazioni economiche. Non c'è biasimo né vergogna perché non sentono di superare un limite morale invalicabile, ma solo un limite artificiale di legge.
Inoltre, per il funzionario pubblico chi ha il coraggio di violare la legge è meno uguale di un altro e merita ricompensa. La corruzione è antiegualitaria. Non si può pensare di ricevere lo stesso stipendio di un altro quando dalle tue decisioni un imprenditore ne ricava un guadagno che senza di te non potrebbe ottenere. Il potere non è stipendiabile, non può essere pagato in maniera fissa, ma a seconda di quanto il suo esercizio è utile alle fortune o agli interessi di altri.

Ma la corruzione non rovina la carriera dei burocrati, né dei politici, né danneggia gli imprenditori coinvolti. Sostiene Max Weber che sarebbe irragionevole rinunciare a delle opportunità economiche solo perché facendolo si viola la legge, a meno che le violazioni vengano energicamente disapprovate dal proprio ambiente sociale. Nel caso della corruzione non c'è riprovazione perché si ritengono quelle violazioni utili all'economia. Violare la norma prevede un incremento di status, rispettarla un decremento.

Incide un'altra considerazione di lungo periodo nella storia italiana: il convincimento che nel rispetto delle leggi non si governa. Questo convincimento è parte della cultura della classe dirigente del Paese. Un uomo di potere, una professione o un'occupazione di potere non è tale se non è in grado di aggirare la legge senza conseguenze. L'abuso è una caratteristica del potere non un suo limite, non una sua degenerazione. Perciò la corruzione è un fenomeno illegale ma autolegittimante. Il disvalore non consiste nell'aver fatto male a qualcuno, ma a qualcosa di astratto (senso dello Stato, deontologia professionale, etc.). Insomma, la corruzione ci dimostra che è ancora incompiuta la credenza nella legalità come valore fondante per tutti. E sarà così fino a quando chi produce le regole e ha il compito di farle rispettare è il primo ad aggirarle.
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