Dalla Calabria alla Campania
la mappa delle celle jihadiste

Dalla Calabria alla Campania la mappa delle celle jihadiste
di Valentino Di Giacomo
Venerdì 6 Gennaio 2017, 16:44 - Ultimo agg. 7 Gennaio, 09:21
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Anis Amri, il giovane tunisino autore della strage di Berlino, era stato per quattro anni rinchiuso nelle carceri siciliane di Catania, Enna, Sciacca, Agrigento e Palermo. Era minorenne quando fu arrestato nel 2011 e come sospettano gli inquirenti che lavorano al caso - la sua radicalizzazione al jihad sarebbe avvenuta proprio negli anni della sua detenzione italiana. Un fenomeno, quello dell'indottrinamento alla guerra santa negli istituti di pena, che allarma in maniera crescente le autorità nostrane. Il caso dello stragista di Berlino non è infatti un caso isolato. Cinque cittadini islamici che sono stati detenuti negli ultimi anni nelle carceri italiane hanno poi deciso, una volta rilasciati, di partire per i campi di addestramento dell'Isis in Siria e in Iraq per diventare dei foreign fighter. Dati assai meno rilevanti rispetto a quelli che emergono in molti altri Paesi europei, ma che non consentono al governo italiano di abbassare la guardia. Per questo, ormai da mesi, si è al lavoro per evitare che nei nostri istituti di pena possa propagarsi a macchia d'olio l'indottrinamento al radicalismo islamico.

Nelle carceri del Paese sono oltre duecento i detenuti a rischio radicalizzazione monitorati dalle forze dell'ordine, ma appena ottanta di questi hanno mostrato preoccupanti segnali di fanatismo religioso. Quelli potenzialmente più pericolosi, circa 20, sono rinchiusi in regime di detenzione separato AS2 (Alta Sicurezza livello 2) nel carcere di Rossano Calabro che è diventato una sorta di Guantanamo italiana per potenziali jihadisti. Quattro di questi detenuti sono coloro che esultarono al grido di «Viva la Francia libera dagli infedeli» dopo aver saputo degli attentati avvenuti al Bataclan. Altri soggetti a rischio sono invece rinchiusi nelle carceri di Benevento e Nuoro. L'isolamento di queste persone in alcuni istituti di pena selezionati è mirato a prevenire che i più estremisti possano entrare in contatto con altri soggetti meno inclini alla fascinazione del jihad. Se la propaganda che negli ultimi tempi lo Stato Islamico ha posto in atto sul web crea una situazione d'allarme per le forze dell'ordine, il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri è ritenuto ancor più pericoloso perché agisce su soggetti ancor più fragili psicologicamente. «Sono persone che entrano in galera per piccoli furti o per reati minori spiegano fonti qualificate del comparto intelligence - ma che possono uscire dal carcere, a seguito di un vero e proprio lavaggio del cervello operato da fanatici religiosi, come pericolosi terroristi». Il fenomeno è assai più evidente per le autorità italiane da quando, nel 2015, con un apposito decreto approvato dalle Camere, è stato consentito agli agenti dei Servizi segreti di infiltrarsi sotto copertura negli istituti di pena per raccogliere il maggior numero di informazioni. Gli 007 da oltre un anno sono autorizzati ad entrare nelle carceri nazionali proprio per prevenire l'arruolamento dei terroristi. È prevista inoltre la possibilità che il personale dei Servizi sia autorizzato a commettere reati nell'ambito delle indagini contro il terrorismo, potendo usufruire di una speciale causa di non punibilità e a deporre, anche nei procedimenti penali, sulle attività svolte sotto copertura. Un lavoro che nel corso del tempo ha portato ad importanti successi investigativi, ma che è stato altrettanto utile per tracciare un identikit delle persone potenzialmente più a rischio.

«Sono soggetti che non hanno nulla da perdere e che spesso si sentono emarginati spiegano fonti dell'intelligence proprio questa loro condizione di fragilità li espone più facilmente al pericolo di radicalizzarsi ai dettami dello Stato Islamico, soprattutto i più giovani che, attraverso quelli che definiscono atti eroici, pensano così di poter riscattare una vita sfortunata». La minaccia viene spiegato non è soltanto l'indottrinamento, ma che nelle carceri i potenziali jihadisti possano trovare anche importanti contatti e indispensabili basi logistiche per compiere attentati oppure per aderire alla guerra santa nei territori controllati dall'Isis. Di frequente gli agenti dei Servizi e delle forze dell'ordine non intervengono immediatamente per fermare sul nascere i soggetti indagati, ma prima attendono di conoscere le reti operative che queste persone riescono a costruire attraverso personaggi all'interno e all'esterno degli istituti di pena. Non di rado i detenuti indagati per jihad vengono messi in condizione di collegarsi ad internet in modo da consentire agli inquirenti di esaminare il loro traffico sul web e di identificare le persone che con cui cercano di entrare in contatto. Solo dopo essere entrati in possesso di un quantitativo di dati sufficienti si procede poi a bloccare ogni piano che questi soggetti hanno ordito per mesi e, a volte, anche per anni.

Se da un lato si cerca di arginare il fenomeno attraverso indagini e intercettazioni, dall'altro la strategia del governo è di offrire ai detenuti di fede islamica un'alternativa di culto a quella proposta dai sedicenti imam improvvisati che nelle carceri fanno opera di proselitismo al jihad soprattutto nei confronti dei più giovani. Su oltre duecento case circondariali censite come rileva un rapporto del Dap soltanto 52 hanno al proprio interno delle moschee dove i detenuti di fede musulmana possono pregare. Fino allo scorso anno, però, appena 14 imam avevano accesso alle carceri italiane per tenere i propri sermoni. Un numero esiguo che si sta cercando di incrementare in collaborazione con l'Ucoi, l'Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia, che così avrebbe la possibilità di accedere all'interno degli istituti di pena con imam più moderati. Tra le proposte avanzate dalla commissione speciale che studia il fenomeno della radicalizzazione, oltre ad incrementare il numero di imam abilitati alla preghiera nelle carceri, c'è anche l'idea di creare un apposito elenco di mediatori culturali capaci di parlare l'arabo.
 

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