Il crollo demografico, non si fanno figli dove si vive male

di ​Isaia Sales
Venerdì 28 Aprile 2017, 08:36
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Sette milioni di italiani in meno. Nel 2065 (cioè tra meno di 50 anni) in Italia ci saranno 53,7 milioni di abitanti rispetto ai 60 milioni e 656 mila del 2016. Ma il principale responsabile di questa drastica riduzione di italiani sarà il Sud, che invece per decenni e decenni ha rappresentato il principale tesoro demografico del Paese e una delle aree più prolifiche d'Europa. La popolazione totale del Mezzogiorno sarà nel 2065 solo il 29% della popolazione complessiva, mentre oggi è il 34%; il peso demografico del Centro-Nord, invece, raggiungerà il 71% rispetto al 66% attuale. Dunque, l'Italia sarà meno abitata perché nel Sud si faranno meno figli, ci saranno meno italiani perché ci saranno meno meridionali: questo in estrema sintesi le previsioni dell'Istat. Il calo sarebbe ancora maggiore se non fosse compensato dalla natalità degli immigrati, che però si orienteranno sempre più a vivere nei territori centro-settentrionali dell'Italia.

Nel 2065 l'età media nel Mezzogiorno sarà di 51,6. Se fino a poco tempo fa il Sud si presentava come un'area in ritardo di sviluppo rispetto al Centro-Nord ma con una popolazione più giovane (e quindi, con qualche chance demografica ed economica per il futuro), tra 50 anni sarà al tempo stesso arretrato, sottosviluppato e pieno di vecchi. Anzi, sarà un vero e proprio Paese per vecchi, perché una parte consistente dei giovani di oggi si saranno trasferiti altrove e non si formeranno nuove classi di giovani in grado di sopperirvi. Il Sud del futuro sarà formato da meno abitanti e da più vecchi. Come sono oggi in larga parte i territori dell'Appennino meridionale. E in questo modo avremmo risolto anche la differenza storica tra zone interne del Mezzogiorno e aree costiere, quelle che un tempo Manlio Rossi Doria definiva come «osso» e «polpa». La situazione attuale delle aree interne sarà il destino comune dell'intero Sud: spopolato e anziano.

Noi meridionali saremo di meno, incideremo di meno sulla popolazione complessiva dell'Italia, saremo più vecchi ma non per questo più ricchi o agiati. Perché la caduta verticale di natalità non è da noi espressione di raggiunta agiatezza, come in genere avviene nelle realtà più sviluppate, ma al contrario di saturazione delle opportunità e di maggiori difficoltà economiche. Il nostro calo demografico è in linea, dunque, con il calo dell'importanza economica del Sud nell'economia italiana. Facciamo meno figli perché non ce li possiamo permettere, e perché non crediamo che la situazione possa cambiare. Non facciamo meno figli perché mancano i servizi sociali per crescerli, ma perché manca il lavoro per mantenerli. I cambiamenti culturali e di mentalità ci hanno dato maggiore senso di responsabilità verso la procreazione, ma al tempo la situazione economica ci sta sottraendo la certezza per progettare famiglia e figli. Siamo cresciuti in responsabilità mentre si riducevano le opportunità, siamo migliorati in consapevolezza ma al costo di non intravedere un futuro. Oggi senza futuro non si fanno figli, mentre la generazione precedente faceva figli per avere un futuro. In questo dato c'è il cambio culturale, sociale ed economico del Sud. 

Insomma, la demografia è la fotografia dell'economia: si nasce e si nascerà di meno dove si vive peggio, si faranno più figli dove si vive meglio; concepiranno meno figli quelli che non potranno permetterselo, ci saranno più bimbi dove ci saranno maggiori possibilità di crescerli in buone condizioni economiche. Si frantuma così un convincimento plurisecolare, che cioè le famiglie più numerose erano solo il frutto della povertà e dell'ignoranza. Oggi e domani sarà esattamente il contrario: i figli diventeranno un prodotto del benessere.

In definitiva, il crollo demografico dell'Italia nel 2065 non è altro che una conseguenza della mancata riduzione del divario economico e delle diverse opportunità sociali tra Centro-Nord e Sud dell'Italia. Se non ci fosse il divario non ci sarebbe questa riduzione di abitanti. E se l'Istat credesse che da qui a 50 anni le cose possano cambiare, non farebbe queste previsioni. In sostanza, l'Istat prevede che la situazione economica per il Sud d'Italia non si modificherà. Le indicazioni demografiche al 2065 sono semplicemente una conferma della situazione attuale che si protrarrà inalterata fino a quel periodo. Quindi, per cambiare le previsioni demografiche che segnalano un calo di italiani di ben 7 milioni di unità, bisognerebbe cambiare radicalmente la situazione economica del Sud. E l'Istat non lo crede.

So che in questi giorni stanno circolando previsioni sul Pil meridionale di grande ottimismo, immaginando che ciò che è avvenuto nel 2015 (una crescita del Pil meridionale superiore a quello del Centro Nord dello 0,3%) possa continuare anche negli anni successivi. E ciò avrebbe (secondo gli ottimisti) una forte incidenza anche su queste previsioni demografiche, fino a poterle radicalmente modificare. Già il calcolo del Pil nel 2016 ha smentito questo ottimismo. Ma ammettiamo che nei prossimi anni questo differenziale dello 0,3% del Pil si mantenesse inalterato a favore del Sud, quanti anni ci vorrebbero per avvicinare e uguagliare il reddito del Centro-Nord? E' un calcolo complesso, ma può aiutarci una simulazione che fece alcuni anni fa Nino Novacco, uno storico dirigente e studioso della Svimez. Novacco calcolò che con un differenziale dello 0,4% del Pil a favore del Sud ( e nel 2015 il differenziale, ripeto, è stato dello 0,3%) occorrerebbe ben 127 anni per raggiungere l'economia e il benessere del Centro-Nord. Cioè, se l'economia meridionale crescesse ogni anno (e per 127 anni di seguito) a un tasso di 0,4 punti superiore a quella centro-settentrionale, solo nel 2243 l'Italia smetterebbe di essere un Paese ad economia duale e il divario si azzererebbe. 

I dati dell'Istat ci dicono semplicemente che se continuerà questa separazione tra Sud e nazione, il danno si ripartirà sull'Italia intera. In demografia come in economia. Se peggiora il Sud, peggiora l'Italia: una constatazione così evidente ma che, purtroppo, non si trasforma ancora in consapevolezza generale delle classi dirigenti nazionali.
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