Battisti in isolamento: «Siete stati bravi, ero stanco di fuggire»

Battisti in isolamento: «Siete stati bravi, ero stanco di fuggire»
Battisti in isolamento: «Siete stati bravi, ero stanco di fuggire»
di Cristiana Mangani
Martedì 15 Gennaio 2019, 08:05 - Ultimo agg. 09:27
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Il ghigno, quello non è riuscito proprio a levarselo dalla faccia. Mentre scende dal Falcon 900 del 31° Stormo dopo 15 ore di volo, Cesare Battisti sorride, in quel suo modo classico che tanto ha fatto imbufalire i familiari delle vittime e gli investigatori. Se non fosse per l'espressione strafottente che riserva all'Italia, dopo 37 anni di fuga, per lo sguardo mai abbassato davanti a centinaia di telecamere, si direbbe che oggi il terrorista dei Pac è rassegnato. Ai poliziotti che lo hanno accompagnato nel viaggio verso il carcere di Oristano, dove è stato destinato su decisione del Dap, si mostra remissivo. «Siete stati molto bravi a trovarmi - afferma - E non è sarcasmo. Non avevo scelta, o un ergastolo o ancora fuggire... ma non posso più, sono stanco».
 

 

Gli uomini che gli hanno dato la caccia per mesi, lo assistono nelle ore di volo. Gli danno una coperta, un giubbotto e dei vestiti pesanti. Parla poco, solo per spiegare come si è mosso durante la fuga, quando è arrivato in Bolivia e come ha cercato ancora una volta di farla franca. Ma non è più come un tempo: le protezioni sono diminuite, e Battisti ha dovuto scendere a patti anche con chi in quelle zone la fa da padrone, narcotrafficanti e criminali.

NIENTE MANETTE
Il lunghissimo viaggio lo passa tra racconti, dormite, a mangiare qualche snack. Non sembra, però, avere voglia di dire troppo. Scende la scaletta dell'aereo attorniato da decine di poliziotti, il sistema di sicurezza è massiccio. Indossa sotto il giubbotto un corpetto antiproiettili, che lo fa sembrare quasi ingrassato. Niente manette ai polsi, viene deciso così. «Per umana pietà», spiegano. Non appena entra nella saletta di Ciampino per sbrigare le prime formalità, gli va incontro Lamberto Giannini, il capo dell'Antiterrorismo. «Lei chi è?», domanda Battisti. Giannini è in borghese e i due non si sono mai incontrati vis à vis. Ne approfitta per dirgli: «Devo ringraziare la Polizia, sono stato trattato bene. Mi hanno dato tutta l'assistenza necessaria». «Sa cosa l'aspetta?», gli viene chiesto. «Certo, andrò in carcere», replica.

Alla fine si è scelto di mandarlo a Oristano, nella sezione As2, il circuito di massima sicurezza riservato ai terroristi. A Roma è rimasto solo qualche ora, per un passaggio all'ufficio immmigrazione della Questura. Le uniche richieste sono state quelle di poter telefonare al fratello e alla figlia. Un colloquio breve, senza commozione: «Sono arrivato in Italia. Sto bene». In Bolivia, pur di ottenere l'asilo, aveva motivato la domanda con una situazione personale pesante: depressione e vizio dell'alcol, dovuti ad anni di persecuzione politica. Una richiesta che ha presentato il 21 dicembre, ma che il 26 dello stesso mese gli è stata rifiutata.

L'HOTEL RIFUGIO
Dal 16 novembre era nascosto in un piccolo hotel, il Casol Azul, dove andava a fare la spesa al mercato e cucinava per i proprietari. Aveva pochissimi soldi a disposizione, si era indebitato per cercare una nuova protezione. E ora su quella rete che lo ha appoggiato nella sua ultima fuga, la procura di Milano ha aperto un'inchiesta, e conta molto di fare chiarezza con la lettura del contenuto dei telefoni cellulari che aveva in uso. Nel frattempo, gli uomini dello Scip e gli 007 di Ucigos e Aise, il servizio segreto estero, continuano a incrociare dati, comunicazioni su Skype e Facebook. Di certo, si sa, che il 13 dicembre, quando la fuga diventa ufficiale, Battisti ha già lasciato l'albergo. Verrà localizzato più tardi, nel momento in cui riaccende il telefonino. Il software di localizzazione lo rintraccia, a prescindere dalla scheda sim che vi viene inserita. «Crediamo - chiarisce uno degli investigatori che segue la vicenda - che non si sia mai mosso da Santa Cruz».

IL CELLULARE
La situazione si sblocca il 4 gennaio: quel giorno l'Imei del suo telefonino segnala la presenza di nuovo a Santa Cruz. Due giorni dopo gli investigatori sono in città e con i colleghi boliviani cominciano a battere a tappeto hotel e pensioni del quartiere. Rintracciano un uomo che gli somiglia e mandano il video in Italia. È lui: viene fermato e portato in caserma. Capisce che è finita ma continua a ragionare come un clandestino: quando gli chiedono se vuole andare a prendere le sue cose, rifiuta e non rivela dove ha passato gli ultimi giorni, proteggendo chi lo ha protetto.

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