La legge 109/96 ed il sequestro dei beni

Domenica 20 Marzo 2016, 12:58
3 Minuti di Lettura
Venti anni sono tanti e servirebbero a verificare se quella creatura nata nel 96 è veramente cresciuta e maturata.

Sì, la legge 109/96, che dettava “Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati” fu salutata, soprattutto da chi ne aveva promosso la nascita, come una delle svolte epocali nella deriva dell’aggressione dello Stato ai patrimoni accumulati illecitamente da mafia, camorra e simili.

Erano passati pochi anni dalle stragi dell’estate del 92 ed era diventato operativo anche il micidiale strumento del sequestro dei beni posseduti in maniera sproporzionata da soggetti indiziati o condannati per reati di mafia (l’art.12 sexies della l.356/92), che si affiancava all’analoga misura prevista dalla legislazione di prevenzione; beni mobili ed immobili, esercizi commerciali ed aziende, semmai con imponenti indotti lavorativi, cominciavano a cadere sotto l’azione repressiva di forze dell’ordine e magistratura, che stavano affiancando, a quella sulle persone, l’attenzione investigativa sui patrimoni.

Ed allora non poteva che esser salutata con entusiasmo una iniziativa del legislatore che prevedeva , nella sostanza, la restituzione al contesto sociale legale dei beni sottratti ai circuiti criminali.

Dopo venti anni il bilancio che l’interprete può fare non è francamente entusiasmante.

Le norme che la legge del 96 prevedeva circa le modalità di destinazione di beni ed aziende sono state recepite e parzialmente rimodulate nel corpo del cd Codice Antimafia che, dal 2011, ha raccolto, in maniera coerente, in un unico testo, le normative di settore; nel frattempo, con due leggi del 2010, il legislatore ha dimostrato ancora interesse alla materia, istituendo l’Albo degli amministratori giudiziari e l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati.

Ma, la non operatività del primo, a ben sei anni di distanza dall’entrata in vigore della legge istitutiva, e le enormi difficoltà operative della seconda, documentano che l’interesse è rimasto un manifesto al quale si è dato seguito con pigrizia, se è vero che non è comparso poi nelle prime pagine delle agende dei governi che si sono nel frattempo succeduti.

Certo, ora è attualmente pendente in Senato il disegno di legge licenziato dalla Camera dei Deputati nel novembre dello scorso anno, che opera una rivisitazione del Codice Antimafia, con interventi significativi , talvolta criticabili, soprattutto nella regolamentazione della fase dell’amministrazione, talaltra apprezzabili come per esempio la previsione dei “Tavoli provinciali permanenti e supporto delle aziende sequestrate e confiscate”(art.16. del DDL).

Infatti, è proprio quella delle aziende e dei rapporti di lavoro all’interno delle stesse costituiti una delle problematiche con le quali i numerosissimi sequestri e/o confische in corso devono confrontarsi.

In un panorama dove all’aggressione al fondo rustico o alla villa del camorrista di turno, si va sostituendo sempre più spesso quella a contesti societari attestati ormai da tempo nel circuito economico del Paese, semmai con legami progressivamente sempre più evanescenti con la loro origine illegale, l’obiettivo connesso all’esproprio dei capitali mafiosi/camorristici deve essere proprio quello della legalizzazione che mantenga in primo piano la salvaguardia delle migliaia di posti di lavoro che imprese, seppure camorristiche o mafiose, hanno creato.

Gli strumenti ci sono : li prevedono in prospettiva gli artt.15 e segg. del DDL pendente in Senato, ma, allo stato, anche lo stesso CAM all’art.48.

Ma, in verità, lo prevedeva già quel lungimirante legislatore del 96 quando al comma 3 dell’art 3 della legge diceva : “ i beni aziendali sono mantenuti al patrimonio dello Stato e destinati : a) all’affitto quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività produttiva….a società e ad imprese pubbliche o private. Ovvero a titolo gratuito …a cooperative di lavoratori dipendenti dall’impresa confiscata…”

Sarebbe interessante documentare quante volte, in questi venti anni, tale saggia previsione di legge sia stata attuata.

Bruno d’Urso
Magistrato – Presidente aggiunto sezione GIP Corte d’Appello Tribunale di Napoli


 
© RIPRODUZIONE RISERVATA