Gli autolesionisti dello zappatellum

di Mauro Calise
Sabato 13 Gennaio 2018, 22:57
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Bisogna leggerle tre volte le proiezioni Ipsos sul Corriere. E poi una quarta. Ma, per chi si occupa di questi numeri da una vita, resta un mistero come sia stato possibile inventare – in zona Cesarini – una legge che resuscitasse il centrodestra. Mettesse con le spalle al muro il Pd. Lasciasse in pista alla grande i Cinquestelle a dispetto del loro isolamento. E comunque senza riuscire a garantire – e neanche a fare intravedere – un’ipotesi di maggioranza di governo. 

Non c’è che dire: un capolavoro. Per di più col timbro patronimico del capogruppo del Pd. Almeno, visto il colpo micidiale che si sono autoinflitto, lo avessero chiamato Zappatellum!
Certo, i sondaggi possono sbagliare. Questo continuano a ripetere in giro, almeno, i poveri democratici per provare a tirarsi su il morale. Ma che significa? La legge, l’hanno votata con questi numeri. Sapendo che, nella migliore delle ipotesi, gli toccava una terribile rimonta. E l’hanno votata lo stesso. Anzi, ne sono stati i promotori. E ora, ora che la frittata è fatta, l’unico tasto su cui batte il Pd è che i conti non si fanno nell’uninominale. Vince chi vince nel proporzionale. Ma come, se fosse questo il criterio, che ce li hanno messi a fare quei collegi? Perché creare un sistema bislacco che premia le coalizioni usa-e-getta, se poi non se ne vuole tener conto? Inutile prendersi in giro. Se Berlusconi e Salvini avranno la maggioranza relativa dei seggi, faranno la voce grossa. Molto grossa. E avranno tutto il diritto di farlo. Perché, sui banchi di Camera e Senato, non ci sarà una casacca diversa a seconda che il seggio è targato proporzionale o maggioritario. Saranno tutti del centrodestra. E – salvo sorprese clamorose – saranno i più numerosi. 
Però, non abbastanza numerosi da riuscire a formare un governo. Questa è oggi l’unica speranza del Pd per il dopo-voto. Puntare sul fatto che, passata l’euforia delle prime settimane, Berlusconi dovrà essere in grado di tirar fuori un nome capace di rabberciare una maggioranza. E un nome simile, non esiste. Non esiste alcun nome che Renzi voterebbe insieme a Salvini. Quindi il boccino dell’incarico passerebbe, inevitabilmente, in altre mani. Arriverebbe il turno del Pd. Il momento – come ha detto ieri il segretario – di schierare il gioco di squadra. L’annuncio del Lingotto non arriva certo a sorpresa. Nell’angolo dove si ritrova, Renzi non è in condizione di continuare a rivendicare una centralità che non ha più. E sarebbe ben felice di potere avere ancora a Palazzo Chigi qualcuno di cui fidarsi. E che fosse comunque del Pd. Ma una simile situazione dovrebbe ricevere il placet del Cavaliere. Anzi, molto più del placet. Il Cavaliere dovrebbe accettare di rompere con Salvini e mettersi in un governo a guida Pd. Per di più, con dei numeri estremamente ballerini. Perché mai? L’unica prospettiva plausibile, sarebbe quella di logorare Renzi. Iniziare uno di quei tira-e-molla in cui Berlusconi ha dimostrato, tante volte, di essere maestro. Per poi finire sbattendo la porta, e correre a nuove elezioni. 
Ma se questo deve essere l’approdo, tanto vale – per il Capo dello Stato – arrivarci senza troppi sconquassi. Tenendo in vita l’esecutivo attuale fino al momento in cui dall’opposizione urleranno di staccare la spina. Già, ma lo urleranno davvero? La gran parte dei parlamentari cinquestelle – nel caso di un ritorno alle urne – cadrebbero nella tagliola del secondo mandato. A cominciare dal loro Capo. Certo, si possono inventare una deroga. Ma sarebbe una mossa scivolosa. Anche perché, alle loro spalle, premono in molti per un ricambio. E gli eletti del centrodestra, soprattutto quelli usciti vincitori dagli scontri frontali sul territorio nell’uninominale, c’è da scommettere che non avranno molta voglia di ricominciare da capo. Anzi, non ne avranno nessuna.
Tanto più che difficilmente verrà una spinta in questa direzione da parte degli elettori. Che – complice anche un sistema di voto incomprensibile – appaiono sempre più distaccati. Disinteressati. Rassegnati – come scrive Pagnoncelli - alla «progressiva minore importanza attribuita alla politica che, a differenza del passato, oggi rappresenta un frammento dell’identità delle persone, peraltro nemmeno il più importante». Forse la chiave per queste elezioni così incerte e così improbabili è tutta qui. In una posta in gioco che è solo un frammento, marginale, di ciò che per noi conta davvero.
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