Udinese da primato ma non in classifica

di Gianfranco Teotino
Sabato 20 Gennaio 2018, 22:57
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La carica dei 103. Calciatori. Tutti tesserati per una sola squadra. Italiana. Sì, centotre. Non è un refuso, avete letto bene. A rivelarlo è stato il presidente dell’Uefa in persona, Aleksander Ceferin, il successore di Platini. Ne ha parlato in un’intervista a un giornale svizzero, La Tribune de Genéve, passata un po’ troppo inosservata. Quale sia la squadra Ceferin non l’ha detto. Però è giusto che lo si sappia, per correttezza dell’informazione e per trasparenza. La sua maglia è bianconera. Ma no: non è la Juventus, è l’Udinese. Un club che da anni basa il suo business model esclusivamente sul commercio dei giocatori. Anche con un discreto livello di competenza. Ma trasformando la gestione di una società sportiva in un continuo, vorticoso giro d’affari nel quale le partite di calcio diventano un fastidioso intermezzo fra una sessione di mercato e l’altra. Che calcio è questo?
I 103 giocatori dell’Udinese non sono la regola, ma neppure un’eccezione. Chi ha pensato subito alla Juventus non ha commesso peccato: soltanto in questa stagione sono stati contati in giro per il mondo 51 calciatori dati in prestito, ma di proprietà della Juventus stessa. Un’abitudine molto italiana e che ha già provocato in passato disastri di una certa entità, non solo calcistici. Per dire, il Parma, che negli anni Novanta era considerato un club modello, simbolo di una città modello, è fallito due anni e mezzo fa, a seguito di una serie di operazioni spericolate e dopo avere toccato un incredibile massimo di 230 giocatori tesserati.
Ma ci sono altre cattive abitudini, per le quali il calcio italiano può vantare una poco invidiabile esclusiva. Per esempio, l’esistenza di società minori use a prestarsi a giochini di compravendita e parcheggio temporaneo di giocatori, al servizio di club più importanti e più potenti che ne indirizzano le scelte e le decisioni. Basta leggere con un po’ di attenzione i flussi del calciomercato per rendersene conto. Si ripetono operazioni per conto terzi e favori reciproci più o meno costantemente fra le stesse squadre. Con una stanza dei bottoni, però, sempre a disposizione dei soliti noti. Una sorta di oligo-calcio nelle mani di un’oligarchia comunicante lungo l’autostrada Milano-Torino.
Naturalmente le distorsioni provocate dall’oligarchia e dai nuovi ricchi del pallone non minacciano soltanto il calcio italiano. Tutta l’intervista del presidente dell’Uefa è centrata sui pericoli derivanti da una crescente accentuazione degli squilibri competitivi. Perché il calcio resti il gioco più amato del mondo, dice Ceferin, «il sogno deve restare vivo». Il sogno cioè di potersi battere e di poter vincere, anche se non sei una superpotenza economica. Il fossato fra grandi e piccoli si sta allargando sempre più. Andando avanti così, entro il 2020 ci saranno cinque società europee, spiega il successore di Platini, che avranno a disposizione «un budget annuale superiore a un miliardo di euro». Che fare, allora? Esclusa, per varie ragioni, di mercato e di compatibilità con le leggi europee, la possibilità di porre un tetto agli ingaggi, l’Uefa sta studiando l’imposizione di una sorta di “luxury tax”: «Se un club spende più di quanto stabilito, deve pagare una tassa sulla differenza». Ancora da stabilire, dice Ceferin, i criteri di redistribuzione di queste somme.
Fra le misure tese a contenere gli squilibri, il presidente dell’Uefa inserisce pure, com’è giusto che sia, la regolamentazione dei prestiti dei giocatori. Oggi infatti i club più ricchi indeboliscono i più deboli anche facendo razzia di giocatori che magari vanno in tribuna oppure vengono prestati in campionati esteri o categorie inferiori. Ebbene, anticipa Ceferin, questo non sarà più possibile: «Dobbiamo solo ancora scegliere se fissare un limite ai prestiti o se vietarli del tutto». Così come verranno stabilite nuove regole per fermare «l’aberrazione del numero di giocatori sotto contratto». I 103 della squadra italiana, l’Udinese, vengono ovviamente citati come esempio negativo.
Sì, perché se il calcio europeo dal punto di vista degli squilibri economici e competitivi sta piuttosto male, il calcio italiano sta anche peggio. Proprio il rapporto finanziario annuale dell’Uefa, pubblicato in settimana, fotografa una situazione in via di costante peggioramento. Soltanto qui i club calcistici non hanno ridotto le perdite di bilancio nonostante le regole del Financial Fair Play. Nell’ultimo quinquennio, i ricavi delle società italiane sono aumentati mediamente di 21 milioni, a fronte di un aumento medio di 110 milioni in Inghilterra, di 58 milioni in Germania, di 44 milioni in Spagna. Abbiamo la più alta incidenza dei salari dei giocatori sui fatturati: il 68%, rispetto al 63% della Premier League, al 57% della Liga spagnola, al 50% della Bundesliga. Impressionante anche il peso dei debiti: il 69% sul fatturato in Italia, rispetto al 31% in Premier League, al 20% in Spagna, al 4% in Germania. Per non parlare delle entrate da attività commerciali che si sono moltiplicate in tutta Europa tranne che in Italia, a testimonianza di difetti di capacità manageriali spaventosi.
Inutile quindi sorprendersi più di tanto per la mancata qualificazione ai Mondiali. Sono passati più di due mesi da quello che sembrava dovese essere il giorno più nero e nulla è cambiato se non in peggio. La presidenza della Federcalcio è contesa fra tre signori che erano nel Consiglio federale che ci ha condotti al baratro. Tre appartenenti alla nomenklatura del pallone che hanno presentato programmi stinti e confusi. L’unica certezza: non saranno fatte riforme serie, anche perché con le regole in vigore è praticamente impossibile approvarle senza una quasi unanimità delle componenti, che oggi è assolutamente irraggiungibile. A meno che qualcuno, d’imperio, non metta mano allo Statuto. O che l’Uefa, con le sue norme più stringenti, non ci dia una mano.
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