Stato-mafia, il dovere di accettare. Il diritto di dubitare

di ​Massimo Adinolfi
Venerdì 20 Aprile 2018, 22:31
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Della trattativa Stato-mafia, che ieri ha portato alle prime condanne, inflitte in primo grado a uomini dello Stato come l’ex comandante del ROS Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, l’opinione pubblica sa molto più di quanto si sappia a proposito di altri processi. È naturale che sia così, di fronte a fatti gravissimi che implicano il coinvolgimento delle istituzioni in uno scambio di favori con la mafia, in sostanza la fine delle bombe stragiste in cambio dell’attenuazione del regime di carcere duro.

Tuttavia, quel che l’opinione pubblica sa, non lo sa al modo in cui si sanno o si dovrebbero sapere le cose nelle aule di tribunale. Lo sa invece grazie alla «grancassa televisiva, fatta di acritico sostegno e di facile suggestione per il sensazionalismo complottistico», senza di cui «il processo sulla Trattativa non avrebbe avuto la stessa parvenza di legittimità e la stessa risonanza». Le parole che ho posto tra virgolette sono state impiegate da Giovanni Fiandaca a commento della sentenza, a firma del giudice Marina Petruzzella, che a inizio novembre 2015 mandò assolto l’ex ministro Calogero Mannino, pure lui implicato nella trattativa. Anche di questa vicenda si è tornati a parlare, perché è ormai prossimo l’inizio del processo d’appello, e dunque ci sarà modo di dare ulteriore risonanza a tutta la materia. Ma in quell’articolo Fiandaca, più che soffermarsi sulla sentenza, si preoccupava di denunciare «i mostruosi intrecci che da anni legano informazione e giustizia», giungendo a suggerire di fare del processo sulla trattativa «un oggetto esemplare di studio», allo scopo di affrontare con la massima serietà e rigore possibile le patologie della giustizia penale.

Ora non abbiamo un’assoluzione, come nel caso di Mannino, che naturalmente i giornali, all’epoca, quasi nascosero nelle pagine interne, ma una clamorosa condanna, che altrettanto naturalmente finisce in prima pagina. Secondo la Corte di Assise di Palermo, Mori e De Donno commisero il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, la minaccia essendo quella delle bombe mafiose dell’estate del ’92. Per il periodo successivo, per gli anni del governo Berlusconi, la condanna colpisce Marcello Dell’Utri. L’ex ministro dell’Interno Mancino è stato invece assolto dall’accusa di falsa testimonianza, mentre condanne hanno riguardato anche il boss Leoluca Bagarella e l’uomo chiave dell’intero processo, Massimo Ciancimino. È lui ad aver documentato (in fotocopia, peraltro: originali non sono stati acquisiti) i termini del patto scellerato fra lo Stato e la mafia, di cui il padre Vito sarebbe stato il mediatore. Ed è soprattutto la sua testimonianza a reggere l’impianto accusatorio.

La sua testimonianza, e la grancassa mediatica. Perché, almeno innanzi all’opinione pubblica, è essa a fornire, per usare ancora le parole di Fiandaca, una parvenza di legittimità. È essa a privare gli imputati di qualsiasi «favor rei», a sospingere tra ali di consenso l’attività delle pubblica accusa, a pronunciare verdetti rispetto ai quali la giustizia dei Tribunali arriva fatalmente dopo, a volte molto dopo i presunti reati (siamo già oltre il quarto di secolo). Con la conseguenza che ogni condanna finisce con l’apparire una conferma, e ogni assoluzione una scandalosa patente di impunità concessa ai potenti.

E invece qualche dubbio è lecito nutrirlo, almeno finché la presunzione di innocenza rimane in vigore nel nostro ordinamento (non è detto che passerà indenne la prossima stagione politica). Anche perché il terreno sul quale si svolgeva il processo è tutto meno che solido. Il reato di trattativa non esiste. All’accusa è toccato dunque dimostrare che gli ufficiali del ROS (gente che non può svolgere indagini tra le scartoffie, come si può ben immaginare) presero iniziative che deviarono dagli scopi di fermare le bombe, e servirono altri fini: nutrirono forse sordidi interessi, consolidarono inconfessabili patti di potere, sostennero indecenti carriere politiche. In larghissima parte, per non dire quasi esclusivamente, la dimostrazione è affidata tuttavia a dichiarazioni di pentiti, e in particolare di quel Massimo Ciancimino, dalla fedina penale non immacolata, che negli anni scorsi è assurto a vera star televisiva, grazie alle sue dichiarazioni.

E così siamo daccapo. Vi è sicuramente, da parte dei giudici palermitani, la volontà di gettare squarci di luce profonda su una stagione torbida della vita pubblica italiana, e non vi è motivo di respingere una sentenza prima ancora di conoscerne le motivazioni. Nessuna critica aprioristica è consentita. Ma vi è invece motivo di tenere desta l’attenzione su tutto quello che si è mosso e si muove attorno a un processo simile, e in particolare modo in cui esso, rilanciato dai giornali, alimenta e infiamma l’indignazione della pubblica opinione, cioè il più grande e decisivo fattore della storia politica della seconda Repubblica, che ne ha in buona misura stabilito il destino (e il fallimento). Non servirà a fini processuali, ma costituirà almeno una linea di resistenza intellettuale, e aiuterà forse, se qualche memoria del passato recente ancora serbiamo, a evitare di assegnare un’altra volta un formato eroico e un potere salvifico al pm di turno.
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