Se la filosofia è più in crisi della politica

di ​Massimo Adinolfi
Mercoledì 14 Novembre 2018, 22:19
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Una continua crisi di legittimità»: nelle pagine dell’ultimo libro di Donatella Di Cesare ne va del rapporto tra la filosofia e la politica, ma ancor prima è in questione lo statuto stesso della disciplina: è un sapere accademico, da dispensare all’università, così che la sua presenza nello spazio pubblico è superflua, ridicola o abusiva, oppure ha una vocazione intrinsecamente politica?
In effetti: se la filosofia è davvero una scienza, come la fisica o la biologia, perché il filosofo avrebbe più titolo d’altri di occuparsi delle vicende della polis? Certo, ci sono anche le scienze umane. Anche lo storico, il sociologo o l’economista insegnano all’università, adottano metodi scientifici e danno il loro contributo al dibattito pubblico. Ma a qual titolo? Su cosa è fondata la loro presa di parola? Se, in quanto scienziati, non si occupano che di «fatti», mentre come intellettuali preoccupati della cosa pubblica non fanno che formulare «opinioni», allora anche per loro si pone un evidente problema di legittimità: la veste di scienziati non va oltre i fatti che studiano e non è quindi in grado di dare fondamento alle opinioni che manifestano.
Si può far finta di non vedere il problema, ma nondimeno esso esiste, e rimane insolubile finché si sta irremovibilmente fermi a questa sacra divisione: da una parte i fatti, dall’altra le opinioni (mentre sotto i nostri occhi accade, per singolare contrappasso, che sempre più spesso le opinioni vengono maneggiate dalle scienze demoscopiche come meri fatti, e i fatti paiono evaporare in una nuvola di opinioni). Ora, la filosofia non ha proprio modo di esser praticata, se non è in grado perlomeno di revocare in dubbio una simile distinzione. Certo, per farlo ci vuole una buona dose di sfacciataggine. Si deve fare spazio a domande del tipo: «che cos’è un fatto?», o «che cos’è un’opinione?», domande che il buon senso, oggi populisticamente omaggiato persino dalle più alte cariche di governo, non sa proprio da che parte prendere, da dove cominciare. (Tutti abbiamo opinioni circa i fatti; quasi nessuno ha opinioni sulla natura delle opinioni, o su quella di un fatto).
Sono, in effetti, domande radicali: sono - come dice giustamente Donatella Di Cesare nel suo libro («Sulla vocazione politica della filosofia», Bollati Boringhieri, pp. 179 € 15)– le domande della filosofia. Domande «meta-fisiche»: domande che trascendono l’orizzonte della «fisica» (l’orizzonte dei fatti, degli enti: l’ontologia), senza peraltro trovar casa in un altro mondo (e quindi comodo albergo nella teologia). Domande che restano in sospeso, che smarginano il mondo dei fatti e spostano continuamente il confine tra idee e cose, tra quello che cade sotto i sensi e quello che viene al pensiero.
La filosofia è insomma, nella intensa ricostruzione che offre il libro della Di Cesare, «da sempre atopica», «altamente estraniante». Ed è grazie a questa sua problematica collocazione che può non semplicemente trovarsi fuori luogo, ma anche alludere – non più che alludere – a un luogo altro, a una costitutiva inappartenenza del filosofo alla città. E, oggi, contestare la pretesa della globalizzazione capitalistica di rappresentare l’unico orizzonte possibile della storia.
Una simile contestazione prende un chiaro significato politico. Inseguendolo lungo tutto il corso della storia la Di Cesare può comporre in un unico quadro i personaggi e i concetti che gli han dato figura. Compaiono così Eraclito, il primo interprete greco del conflitto politico (per Eraclito «è la città – sostiene la Di Cesare – il paradigma ermeneutico del mondo») e quell’uomo «impossibile da classificare» che fu Socrate. Compaiono soprattutto le «cesure» e i «traumi» del Novecento: il grande errore di Heidegger, che aderisce al nazionalsocialismo, e l’angelo di Benjamin, la «lotta per il risveglio dallo spazio collettivo» di quello straordinario interprete e critico della modernità che fu Walter Benjamin. A lui si deve l’immagine più bruciante che il libro lascia meditare: il filosofo come «stracciaiolo alle prime luci del giorno – all’alba della rivoluzione».
Impossibile, tuttavia, raccogliere qui tutti i fili che il libro intreccia. Due però imprimono un segno più marcato: uno è la critica delle forme politiche moderne: Stato, sovranità, democrazia, che Di Cesare ha già declinato nei suoi libri precedenti (in particolare in «Stranieri residenti», uscito lo scorso anno, in cui si vede quanto questa filosofia si faccia solidale con la condizione del migrante, dello straniero); l’altro è la polemica nei confronti di un’idea troppo rinunciataria della filosofia, «sempre più formale, sempre meno politica», che si contenta di farsi modesta «ancilla» della democrazia. Ma le responsabilità del pensiero sono altre, più grandi e più inquietanti: questo libro è stato scritto per provare a nuovamente suscitarle. E a combattere per esse. E, forse, questi nostri tempi sono effettivamente tempi di nuove battaglie intellettuali.
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