Se il partito evapora ma i dirigenti restano

di Mauro Calise
Venerdì 28 Aprile 2017, 23:44
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Domani sapremo chi ha vinto la sfida per la segreteria del Pd. Ci sarà la solita lite sui numeri dei partecipanti. Gli sconfitti diranno che sono pochi, Renzi – vincitore annunciato – ricorderà che sono comunque cifre che gli altri partiti nemmeno vedono col cannocchiale. E Grillo soltanto in virtuale. Poi finita la conta, i riflettori si sposteranno sul governo. Se davvero – come tutti promettono – potrà continuare a lavorare. E se e come riuscirà a districarsi nel prossimo pantano in arrivo, la chimera di una nuova legge elettorale. Di una cosa possiamo stare certi: calerà il sipario sul partito. Una volta ritrovato il leader, cambierà qualche nome al vertice. Ma nessuno avrà la voglia – e la forza – di metter mano alla riforma rimandata, di anno in anno, da diversi lustri: quella dell’organizzazione del Pd in periferia, nei territori. E di questa riforma mancata, il caso più emblematico – e drammatico – resta Napoli, e la Campania.

Non è il caso di ripetere quello che tutti sanno, anche i diretti interessati. A Napoli non c’è un partito in difficoltà. Semplicemente, non c’è più il partito. Il paradosso, però, è che questo vuoto non significa che i responsabili di questo colossale fallimento se ne siano andati a casa. Sono tutti rimasti ai loro posti. Certo, si sono assottigliate le poltrone. Come quelle in consiglio comunale. Ma anche quella manciata di seggi può essere sufficiente a siglare un patto con il sindaco in carica, come si è visto nell’affaire per le deleghe alla città metropolitana. Un patto a titolo personale, individuale, alla faccia anche della mera facciata di una decisione collegiale. Così come personalissime rimangono le trattative con cui i vari micronotabili – con la manciata di tessere residue che si vantano di controllare – si stanno posizionando in vista della compilazione delle prossime candidature parlamentari. 

Ora, al punto cui siamo arrivati, nessuno vuole farsi illusioni che, da lunedì a qualche settimana, davvero possa sbarcare a Napoli un commissario col lanciafiamme – secondo il noto proclama renziano diventato una battuta da bar. Ci si può perfino abituare – non rassegnare – all’idea che, ancora per qualche tempo, la politica non bagni Napoli. Però, delle due, l’una. O si decide che il caso Napoli è un caso estremo, un incidente doloroso nel percorso di rinnovamento che comunque dovrebbe andare avanti. Che, cioè, per un destino capriccioso la capitale del Sud è condannata a restar fuori dal nuovo corso che Renzi continua a ripetere di volere imboccare. Oppure, Napoli diventa l’emblema del fallimento di quel rinnovamento troppe volte annunciato e ritrattato. 

È questa la domanda più difficile cui il nuovo segretario dovrà dare, il più rapidamente possibile, una risposta. 
Passata la reincoronazione, ritrovata la grinta e la fiducia, l’anno scarso che ci separa dal prossimo appuntamento elettorale come lo trascorreremo? Di nuovo si punteranno i riflettori su Paolo stai sereno, oppure no? Con la variante delle variazioni – a geometria variabile – con cui variare – e possibilmente varare – una nuova legge elettorale? O il segretario si deciderà a prendere finalmente sul serio il mandato che il milione e passa di primarianti, domani, gli affida. Un mandato di rifondazione, radicale e totale, del Pd. Certo, se il segnale della svolta dovesse addirittura partire proprio dalla capitale del Sud, sarebbe così tonante da scuotere l’intero apparato nazionale. Ma siamo perfino disposti a mettere il sogno partenopeo nel cassetto (non in naftalina). A condizione che nel resto del paese si veda subito un cambio di passo. A partire da un cambiamento di facce. Quello che ha fatto Grillo, e che sta facendo Macron. Non si tratta di populismo, o qualunquismo. Si tratta di capire che la delega opaca ai micronotabili non può essere più il meccanismo di gestione del potere in periferia. Le primarie hanno ancora un senso se portano, nel partito, aria nuova. E nuove energie. Senza queste, il prossimo segretario resterà prigioniero del passato. Anche di quello che non ha potuto – o saputo – rottamare. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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