La memoria forte
dei Sassi di Matera

di Massimo Adinolfi
Venerdì 18 Gennaio 2019, 00:00
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All’età di settantasei anni, Zanardelli si mise in viaggio. Con un treno speciale, da Roma, per raggiungere prima Napoli, poi Eboli, quindi più a sud Sicignano degli Alburni, infine la Lucania. A Matera il presidente del Consiglio giunse dopo qualche giorno, il 24 settembre 1902. Al suo arrivo bandiere, cartelli, popolo festante e notabili locali in ghingheri. Zanardelli fu ospitato nel palazzo del senatore Giuseppe Gattini.

Ma le cronache raccontano che la folla riunitasi in piazza presto cominciò a rumoreggiare: «Si voleva il lavoro per guadagnare di che sfamare le famiglie languenti nei tuguri dei due Sassi, donde da lunghi anni si levavano tanti gemiti, dove senza speranza si moriva». Così scriveva “La scintilla”, organo di stampa locale, di ispirazione cattolica. E nella memoria consegnata al capo del governo si dava il quadro desolante di una popolazione materana che per cinque sesti abitava «in tuguri scavati nella nuda roccia, addossati, sovrapposti gli uni agli altri, in cui i contadini non vivevano ma a mo’ di vermi brulicavano come squallidi avvoltoi nella promiscuità innominabile di uomini e bestie, respirando aure pestilenziali».
Quei tuguri sono diventati prima patrimonio dell’umanità, nel 1993, poi il simbolo del riscatto straordinario di una città, che diviene capitale europea della cultura senza rinunciare alla propria storia ma anzi recuperandola, ed esaltandone il valore di testimonianza culturale, antropologica, etnografica.

C’è un’altra data che conviene però ricordare, per accostarsi a questo appuntamento. È il 1952. All’indomani della guerra è uscito “Cristo si è fermato a Eboli”, il libro in cui Carlo Levi descrive il «precipizio» di Matera - «il monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni» e di sotto il «torrentaccio», la Gravina, «con poca acqua sporca e impaludata», e sulle pareti di quell’imbuto i Sassi, «grotte scavate nella parete di argilla indurita nel burrone». Raccontava, Levi, che in quelle case, «se così si possono chiamare», stavano insieme uomini e donne, bambini e bestie: «Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa […]Sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste». Un racconto intollerabile, per l’Italia democratica uscita dal conflitto mondiale in cerca di una nuova identità. Palmiro Togliatti aveva gridato tutta la propria indignazione, nel 1948, parlando di una vergogna nazionale, e De Gasperi si era recato in visita, due anni dopo, per poi firmare, in quel 1952, la legge speciale per lo sfollamento dei Sassi. 

Ed è in quell’anno, a cinquant’anni di distanza dal viaggio di Zanardelli, che l’antropologo Ernesto De Martino organizza la sua spedizione in Lucania «per la raccolta del materiale relativo alla vita culturale tradizionale del mondo popolare di questa regione». Lui stesso avvertirà la singolarità della parola «spedizione», normalmente usata per «viaggi di studio in regioni lontane e poco conosciute come il Congo o il Tibet». Invece si tratta della Basilicata: anche se passato e tradizione si sono messi in movimento, per De Martino è ancora possibile raccogliere documenti su riti e cerimonie arcaiche, pratiche magiche e lamenti funebri. Il libro che ne risulterà nel ‘58, «Morte e pianto rituale», vincitore del premio Viareggio, è introdotto da una pagina di Benedetto Croce (scomparso proprio in quel 1952), di cui De Martino si considerava allievo. Si tratta di una breve meditazione intorno alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care?». Nel libro, De Martino provava a rispondere a questa domanda, o meglio: a raccontare in che modo una cultura costruisce le proprie regole, i propri codici, a partire da esperienze così radicali – e, al contempo, così naturali – come la morte.

Perché questo è il punto intorno a cui ruotano le figure evocate: Matera, i Sassi, Carlo Levi, Ernesto De Martino, ma anche Pasolini che gira in Basilicata il Vangelo secondo Matteo, e da ultimo Giorgio Agamben, che nel film di Pasolini ha recitato, e di recente ha firmato l’introduzione a Paura della libertà (Neri Pozza, 2018), il libro “filosofico” di Carlo Levi, esordendo con queste parole: «L’apparizione di Paura della libertà nella cultura italiana dell’immediato dopoguerra ha qualcosa di inspiegabile». Cosa ha di inspiegabile? Perché fu accolto con «stolida ostilità»? Perché non condivideva la temperie storicistica e progressista dell’epoca, ma pretendeva di farsi muto testimone di un altro tempo, o forse di un’altra storia, confitta con il suo arcaismo nella modernità repubblicana.

Questo sono stati i Sassi nella cultura italiana: il punto di una discussione critica, di uno scandalo, fra le certezze della cultura progressista, idealistica o marxistica, chiamata dalle sue ragioni morali, politiche e ideologiche a cancellare la vergogna dei “tuguri”, e le inquietudini “metafisiche”, “esistenzialistiche” di figure più appartate e quasi profetiche, come De Martino o Levi (o Pasolini), che cercavano i loro oggetti ai margini della modernità, con lo sguardo rivolto alle rovine che la storia accumula dietro di sé.
Questo è, anche, il significato delle celebrazioni di Matera capitale culturale europea. Perché in ogni storia non c’è sola la direzione più facilmente riconoscibile; c’è anche una memoria che permane. E gran parte della fortuna di Matera – non solo banalmente turistica, ma culturale e civile – sta nella capacità di tenersi su questo crinale, coniugando l’arcaico e l’attuale. Non turisti, è scritto nel dossier della candidatura, ma “cittadini temporanei”. Temporanei, però, nel tempo in cui, grazie alla rivoluzione digitale, alle nuove ingegnerie della conoscenza e della vita, anche le figure dell’umano non hanno più la permanenza di una volta.
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