Centro storico, la mutazione
sia governata e non subita

di Piero Sorrentino
Venerdì 18 Gennaio 2019, 00:00
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Più di ogni altra città, Napoli è fondata e costruita sul suo centro storico. E più che in ogni altra città, la vita di Napoli corrisponde interamente e perfettamente alla vita che attraversa le sue strade. Qui non ci sono palazzi ducali, palazzi vecchi o della Signoria. Napoli si nega qualunque interiorità. Le sue case, lo sappiamo, sono un segreto invincibile. La vita della città sta tutta e solo nello spazio pubblico. Ed è per questo che le trasformazioni che lo investono assumono – qui e solo qui – i tratti di una ricaduta radicale e totalizzante sui suoi abitanti.

A ogni azione sul suo spazio urbano corrisponde una reazione che si incista nella carne viva dei suoi abitanti. Ed è anche per questo che, anno dopo anno – mentre la macchina del turismo macina chilometri con una invincibile resistenza – l’impressione di essere finiti in un vicolo cieco si fa più forte. E se non proprio in un vicolo cieco, in una stradina che non si interrompe bruscamente, ma scivola verso una specie di pista sempre meno visibile, sempre meno riconoscibile.
Chi più conosceva il centro storico, meno ci si ritrova. Chi più lo frequentava, meno sa orientarsi. E non parlo di banali spostamenti quotidiani da un punto all’altro, ma di identità, forma, struttura, funzione. 

L’esplosione incontrollata di alberghi e bed&breakfast, l’offerta torrenziale di locali che offrono cibo a tutto le ore, gli ammassi di turisti che pascolano lungo i Decumani: tutto contribuisce a questa sensazione di spaesamento. «Il successo di Sorbillo e di tante altre analoghe attività sta modellando su interessi leciti una parte della città», ha scritto ieri su queste colonne Isaia Sales, commentando l’esplosione che ha parzialmente distrutto l’ingresso della pizzeria. Vero. Altrettanto vero è che il successo di Sorbillo e di tante altre analoghe attività sta delineando modalità di funzionamento del centro cittadino alle quali, nella sua pur millenaria storia, la città non era mai andata incontro. In tutto questo non c’è nulla di male. Non bisogna allarmarsi né stracciarsi le vesti. «Non ridere, non piangere né detestare, ma capire», ha scritto Spinoza. Capire, e governare. È questo che fa una classe dirigente, è questo che fa la politica. Prima che sia troppo tardi. Prima che Napoli non sia più una città per napoletani. Prima che i clan di camorra, soprattutto, occupino con l’unico linguaggio che conoscono – quello della violenza e della sopraffazione fisica – questo spazio decisionale lasciato pericolosamente vacante.

Nell’eccitazione festaiola di alberghi pieni, case-vacanza sold out, ristoranti e bar presi d’assalto, il cancro camorristico può volersi infilare a capofitto. Proteggiamo invece la città dai suoi finti bollori, custodiamo un fuoco magari più piccolo, più concentrato, ma più vero e brillante delle fiammate di entusiasmo effimero e senza progetto. L’impronta che il turismo sta lasciando sulla città è enorme. Le potenzialità di sviluppo economico altrettanto grandi. È fondamentale una presa di coscienza, la riattivazione di uno sguardo lucido che possa rinvenire le diverse e molteplici possibilità offerte da questo scenario inedito. Le istituzioni, la politica, l’amministrazione cittadina abbia il coraggio di prendervi parte assieme alle forze vive della città, senza partecipare alla lotta tra chi è più bravo a fabbricare scatole vuote. Abbandonando l’inerzia decisionale e il populismo per convertirsi in critica attiva, in una azione capace di misurarsi con la complessità del reale. Chiedere alla politica di riappropriarsi della propria opera, di riprendere il controllo sulla vita della città e dei suoi cittadini, è un punto di partenza irrinunciabile. È anche da questa ben distinguibile impotenza che nascono le bombe, dalla percezione di poter fare quello che si vuole e che si può di una città sguarnita. 
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