La solidarietà social
somiglia di più a una resa

di Francesco Durante
Sabato 19 Gennaio 2019, 00:00
3 Minuti di Lettura
Non è obbligatorio essere degli eroi. Chi vive in una realtà complessa e difficile come quella napoletana non può farsi carico personalmente di problemi che vengono da molto lontano nel tempo e la cui soluzione non è a portata di mano, soprattutto non di una mano disarmata. E siccome in un Paese civile e democratico l’unica mano legittimamente armata è quella delle forze dell’ordine, certi problemi è bene che li risolvano per l’appunto le forze dell’ordine.

Le uniche abilitate a combattere sul terreno la criminalità organizzata. Detto questo, tuttavia, nemmeno si può pensare che le forze dell’ordine da sole, nell’apatia del popolo e nell’indifferenza di un’opinione pubblica nazionale che inclina a considerare quella di Napoli una causa persa, possano fare miracoli. Ci sono momenti in cui la presenza attiva dei cittadini diventa essenziale per determinare un cambio di clima, per far emergere una volontà collettiva, per far capire che ora basta, la misura è colma e bisogna voltar pagina. Ma se i cittadini si tirano indietro, finisce che essi stessi si dichiarano complici o schiavi delle logiche criminali. Diventano disertori, e perdono il diritto di lamentarsi, di invocare misure drastiche, di condividere una sacrosanta battaglia contro il sottomondo malavitoso che così, ancora una volta, potrà misurare l’efficacia del ricatto cui quotidianamente sottomette un quartiere e una città, convincendosi del fatto che l’unica legge veramente in vigore è la sua: quella del più forte, del più selvaggio, del più incivile.

È questo lo schema che si è tristemente riproposto l’altro ieri in occasione del più che sostanziale fallimento della mobilitazione popolare dopo l’attentato alla pizzeria Sorbillo, un evento che ha avuto risonanza pressoché planetaria. Oggi ci sarà la prova d’appello, e speriamo che vada molto meglio. Speriamo, soprattutto, che la partecipazione sia tale da oscurare il penoso flop dell’altro giorno e far sì che nel mondo possa riacquistare peso l’impressione che a Napoli non tutto è perduto, ed esistono ancora margini per affermare i princìpii della legalità, della libertà e del progresso civile. 

L’attacco del racket a Sorbillo ha rivelato per l’ennesima volta la soffocante pervasività di un sistema criminoso dedito, in questo caso, a colpire le molte nuove realtà fiorite nel centro storico insieme con il massiccio ritorno dei turisti. È un paradosso insopportabile: sappiamo che i turisti vengono a Napoli anche perché la ritengono più sicura di altre mète oggi esposte ad attacchi terroristici, e guai se il flusso si ridimensionasse proprio perché, al contrario, si diffondesse la convinzione che Napoli resta una città violenta e invivibile, una città rischiosa per chi vi si avventura, magari con l’unico effetto di ingrassare il già fin troppo pingue portafogli dei nemici mortali della città e del popolo, questa orda di traditori senza onore che continua a dettare legge. Ecco allora che ci sono momenti, come questo, in cui esprimere la propria indignazione attraverso un post sui social risulta fin troppo comodo. Ci sono momenti in cui, invece, bisogna fare un piccolo sforzo e decidere di muoversi di persona, per partecipare a quello che non è affatto uno stanco rituale, bensì l’unica risposta possibile da parte di una città ancora disposta a credere nel suo futuro liberato dalle forze che hanno bisogno di ricacciarla nel suo inferno tribale. 

Oggi è per l’appunto il momento di arruolarsi dalla parte giusta e di scendere in piazza, come si faceva una volta e da troppo tempo non si fa più. È il momento di farsi vedere, di gridare la propria rabbia e il proprio orgoglio, di far capire ai parassiti che Napoli, nonostante tutto, ha ancora anticorpi capaci di prevalere sul male.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA