Calcio, Malagò non deve arrendersi

di Gianfranco Teotino
Mercoledì 13 Dicembre 2017, 23:06
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Sono ancora tutti ai loro posti. Un mese dopo la notte più amara per tutti gli italiani appassionati di calcio, o anche solo tifosi della Nazionale, non è cambiato niente. Anzi, quanto è successo da allora a oggi è stato sufficientemente chiaro da farci capire che probabilmente non cambierà mai niente. Altro che apocalisse.

Tavecchio, tenetevi forte, conta più di prima: è ancora presidente, per quanto dimissionario, della Federcalcio e ha rafforzato il suo ruolo di capo della Lega, di presidente di tutti i presidenti che contano, non solo più commissario autonominato, ma oggi anche in qualche modo legittimato dal voto unanime di tutti i club di Serie A. Un commissario scelto per acclamazione dai “commissariati”, una cosa da non credere, come se gli esaminandi scegliessero i loro esaminatori, i ladri le loro guardie, gli investitori la loro Consob, le banche i loro vigilanti (a voi la scelta su quale di queste similitudini sia più inaudita).
Sono ancora tutti ai loro posti, tranne uno, il pesce più piccolo, Ventura, il ct della vergogna, e sebbene sia un po’ esagerato indignarsi per le sue vacanze a Zanzibar, è bene ricordare che non ha pagato neppure lui. Nel senso che percepirà i suoi bravi stipendi fino a Mondiale concluso. Quel Mondiale in cui noi non ci saremo. “Un evento catastrofico. Un danno sportivo, emotivo e persino economico. Nel 1958, l’unica altra volta in cui noi non ci qualificammo, le squadre in competizione erano 16. Erano l’élite, non come adesso che vi sono ben 32 nazioni ammesse. Parole del presidente del Coni, Giovanni Malagò, che ha rilasciato ieri un’intervista al Foglio, molto partecipata e anche piuttosto istruttiva. Uno sfogo umanamente comprensibile, assolutamente sincero, condito di un’amarezza genuina. Peccato solo che non si tratti di osservazioni di un appassionato deluso, ma del capo dello sport italiano.
Le argomentazioni contenute nella chiacchierata con Salvatore Merlo sono ineccepibili. Un atto di accusa coraggioso e spietato. «Credo che il calcio dia alla testa». «Questi del calcio litigano troppo e sono incoerenti». «Si sono ricompattati solo per impedirmi il commissariamento della Figc». «Sembra una commedia di Ionesco». «Tavecchio… è surreale». «La Lega di Serie A (è) da sette mesi con un commissario che è atipicamente, inspiegabilmente, incredibilmente il presidente dimissionario della Figc». «È… strano che i presidenti della Serie A, quelli stessi che si lamentano delle regole “strane”, corrano a riconfermare Tavecchio». «Un caos assembleare che ricorda certa irredimibile burocrazia italiana». «Ci sono piccoli potentati, portatori di interessi particolari che fanno la lotta nel fango gli uni contro gli altri». «Se i dilettanti vanno compatti vincono». «E allora sa che le dico? Io alzo le mani. Se sono contenti di come vanno le cose, auguri».
Da qui il titolo dell’intervista, altrettanto ineccepibile: «La resa di Malagò». Cioè del capo dello sport italiano, del presidente del Coni che dovrebbe vigilare sulle Federazioni sportive nazionali, indirizzandone e controllandone le attività. Una resa perciò che suona male. C’è un passaggio, un solo passaggio, nelle considerazioni di Malagò che riesce infatti del tutto incomprensibile. Quando dice: «Il presidente del Coni ha compiti di vigilanza su sessantatré federazioni e sulle discipline sportive associate. In tutte queste federazioni vige una regola base: se si dimette il presidente, arriva il commissario. La regola vale per tutte le federazioni, tranne che per una. Indovini quale?». Quella del calcio, interloquisce l’intervistatore. «Esatto!». Ora, visto che non esiste nessuno statuto speciale che differenzi il calcio dalle altre discipline, francamente non si capisce perché il Coni non sia intervenuto e non intervenga, in base a quale ordinamento, a quale documento il calcio abbia una sovranità illimitata.
A fermare la voglia di commissariamento di Malagò (e di tutti gli italiani, ad eccezione dei “commissariati”), sono stati i legali del Coni. Obiettivamente, vi sono ragioni complesse legate allo stato giuridico delle federazioni sportive, associazioni di natura privatistica che esercitano però attività di natura pubblicistica, a differenza del Coni che invece è ente pubblico a tutti gli effetti. Purtuttavia, nello Statuto del Coni è espressa a chiare lettere la facoltà di commissariamento delle federazioni sportive in caso, fra le altre fattispecie, «di constatata impossibilità di funzionamento» degli organi federali. Si può dire che funzioni un Consiglio federale con un presidente dimissionario come Tavecchio e una Lega, la più importante, rappresentata a sua volta soltanto dal medesimo Tavecchio che si era autonominato commissario? Se gli avvocati del Coni sostengono di sì, forse sarebbe il caso che lo stesso Coni cominci a guardare dentro anche al suo ufficio legale, che si perpetua nel tempo come i dirigenti del calcio italiano.
In ogni modo, ci sono dei momenti in cui non si deve neppure avere paura di finire in tribunale. Poi vedremo chi ha ragione, ma intanto cominciamo a riformare il calcio italiano, che è irriformabile dal suo interno come ben sa, e dice, anche Malagò: «Ci sono regole statutarie che non funzionano. Ci sono minoranze di blocco, gruppi d’interdizione, interessi particolari che impediscono il funzionamento dell’organismo». Allora, se è così, ed è così, bisognerebbe modificare subito lo statuto, in quanto non conforme ai principi fondamentali del Coni, ed evitare che a fine gennaio si vada a nuove elezioni con vecchie regole, e cioè con le stesse vecchie facce a contendersi le stesse vecchie poltrone.
Ecco perché «la resa di Malagò» è una pessima notizia. Se non è bastata la mancata partecipazione al Mondiale, dopo sessant’anni e solo per la seconda volta da che calcio è calcio, per smuovere le acque, per cambiare le regole inadeguate, per programmare diversamente il futuro, che cosa dobbiamo ancora aspettare? Che salti per aria un grande club? O addirittura l’intero sistema?
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