La morale al rovescio dei «senza famiglia»

di ​Massimo Adinolfi
Domenica 18 Marzo 2018, 23:25
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«Ora si fanno 16 anni di galera». Guardi dentro le vite dei tre ragazzi che hanno ucciso a colpi di bastone Francesco Della Corte, a Piscinola, e non vedi niente. Niente che possa dar conto di una violenza così assurda. Il furto della pistola, per ricavare poche centinaia di euro? La noia di notti trascorse per strada, quando l’ultima cornetteria è ormai chiusa? I genitori separati? La mancanza di un lavoro? Certo, tutto questo: ma si può uccidere per questo? Poi leggi le parole della fidanzata di uno dei tre minori arrestati, e ti accorgi che ragiona con più precisione di come ragioni tu. 
O almeno: con maggior cognizione di causa, perché non si domanda se una vita – l’altrui, la propria – valga cinque, seicento euro o anche solo un modo diverso di tirare l’alba, ma se valga la pena farsi la bellezza di 16 anni di galera per una prodezza simile. La domanda è sua, della ragazza. Le parole sono sue: sono in una intercettazione di due giorni fa. E lei è più scafata di te perché non conosce solo di quanto viene diminuita in genere la pena qualora l’omicidio venga commesso da un minore, ma sa anche che vuotando il sacco i tre ragazzi sono stati – così dice – proprio scemi. Si capisce che lei non avrebbe confessato, che confessare non conviene mai, che se riesci a tenere duro magari la sfanghi.
Parole che descrivono un mondo. Nel quale si ha perfetta conoscenza del sistema delle pene, di come funziona la giustizia, di cosa ti aspetta in carcere. Vi è consuetudine, familiarità, frequentazioni. Bisogna aver messo piede in tribunale, o aver parlato con qualcuno che ci mette piede. Forse si è già andati più di una volta dall’avvocato, o altri hanno raccontato quel che gli avvocati abitualmente spiegano ai loro clienti. Parole che appartengono a un mondo attraversato da una netta linea di divisione: di giorno si dorme, mentre i grandi lavorano (se un lavoro ce l’hanno). Di notte si va in giro, mentre i grandi dormono (se a dormire riescono). 
E di notte le ore trascorrono bevendo, fumando, ma anche giocando a “mazza e pivezo”: un gioco, quello della lippa, che si fa con un bastone lungo e qualche stecco appuntito. Che viene colpito su un’estremità in modo da farlo saltare in aria, dove viene colpito di nuovo, al volo, per essere lanciato il più lontano possibile. Non ci vuol nulla: non ci vogliono gadget, smartphone e nemmeno denari, per giocare. Ci vuole una cosa sola: scivolare fuori dalla storia, trovarsi in una dimensione atavica, arcaica, che però può irrompere improvvisamente, con tutta la sua ferocia, nella contemporaneità. Come se la modernità – lo Stato, le istituzioni, la legge – non fosse mai passata per quelle strade, non avesse mai lasciato un segno su quelle storie, quei volti, quei corpi.
È l’estraneità, ancor più che l’esclusione, lo spazio in cui si consumano simili delitti. Esclusione indica ancora un rapporto, sia pure negativo; estraneità dice assenza di ogni rapporto, di ogni possibilità di costruire relazioni significative oltre il giro delle amicizie. Non ci riesce lo Stato, non è in grado la scuola, non ci arriva la famiglia. Tant’è vero che uno dei genitori, desolato, non ha saputo dir altro se non che «un figlio viene come vuole lui, come le piante, crescono storte o dritte e tu non ci puoi fare niente». Figli come piante: non c’è parola che possa raggiungerli, non c’è contenuto di senso che possa toccarli. Una resa totale, frutto forse dello sconforto del momento, ma che segnala un fallimento più generale, che investe ogni idea di educazione, istruzione, emancipazione.
Sanno quello che fanno? Certo, lo sanno. Sanno che uccidono, che colpire con una mazza un uomo è diverso, nuovo e molto più eccitante che colpire una pietra, in un gioco che si ripete sempre uguale e che, a tarda notte, viene infine a noia. Hanno anche informazioni assai precoci su quel che avviene dopo: sui limiti di punibilità di un minore o sugli sconti di pena. Ma questo purtroppo non vuol dire aver raggiunto una vera maturità caratteriale e culturale. Quando succede (perché di frequente succede) che il minorenne dichiara alla polizia che l’arresta che tanto non gli si può far niente perché è un minore, dimostra che è perfettamente al corrente dei limiti di applicabilità della sanzione penale – o, come la fidanzata di uno degli assassini di Piscinola, della sua attenuazione per i minori di diciotto anni – ma anche di coltivare con ostinazione una volontà diversa da quella che ti viene riconosciuta in quanto capace di imputazione, capace cioè di assunzione di responsabilità per i tuoi atti. 
Certo, la società non può non supporre che quell’altra volontà, la volontà di rimanere fuori, di restare ai margini, di rifiutarsi a regole e doveri, è proprio quello che, con la crescita e la formazione, scomparirà. Ma fino a quando si riuscirà a mantenere questa fiducia, o non si sarà costretti ad ammettere che, purtroppo, è soltanto una «fictio» giuridica, una costruzione giuridica senza forza autentica, reale? 

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