Italia senza Mondiali metafora del Paese

di Massimo Adinolfi
Sabato 16 Giugno 2018, 22:53
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Il cielo azzurro sopra Berlino, e Sandro Pertini che esulta a braccia alzate al Santiago Bernabeu: chi non li ricorda? Frasi e immagini memorabili, che rimangono nella memoria di intere generazioni. Ci sono quelli che recitano come una filastrocca la formazione del Mundial ’82, e quelli che parlerebbero per ore della testata di Zidane a Materazzi, nel 2006; quelli che si ricordano ancora la stentatissima qualificazione, col Camerun, prima della cavalcata finale, in Spagna, e quelli che ancora non ci credono che Grosso ci ha portati in finale, in Germania.
A questa bella collana di ricordi ed emozioni, Mosca 2018 non aggiungerà nulla. A meno che non vi appassioniate nel vedere Vladimir Putin in tribuna, o gli arbitri italiani dietro la Var, c’è poco da esultare, quest’anno. Poi, beninteso, si può tifare lo stesso: per l’Argentina che è pur sempre la nazionale di Maradona, o per il Brasile che quando vince non fa torto a nessuno. Ma non è la stessa cosa. E l’Italia, diciamocelo, è un po’ meno Italia senza il mondiale di calcio.
Perché il calcio, nel nostro Paese, è quella cosa per la quale Palmiro Togliatti volle fortissimamente che l’Unità, il giornale del partito, avesse la sua bella edizione del lunedì con tutti, ma proprio tutti i risultati, dalla serie A alla serie C. Ed è anche diventato, il calcio, l’evento sportivo più seguito al mondo, dopo le Olimpiadi. 

All’incrocio di queste due bisettrici, fra passione, tifo e ideologia, tradizione e modernità, l’Italia non c’è. Non c’è il calcio italiano, che significa: sport, più industria, più spettacolo, più opinione pubblica, più identità nazionale. In ciascuno di questi ambiti, l’Italia senza il mondiale ha qualcosa di meno. 
Siamo abituati a dire: la settima potenza al mondo, la seconda manifattura d’Europa, uno dei Paesi fondatori dell’Unione, la nazione col più ricco patrimonio culturale al mondo. Tutti primati che appartengono, tuttavia, al passato. Gli indici economici dell’ultimo quarto di secolo descrivono tutt’altro scenario. Può darsi che non sia appropriato parlare di declino italiano, e che la stagnazione secolare che gli economisti intravedono non sia già cominciata, da noi. Auguriamocelo. Ma la formazione che ha giocato contro la Svezia, mancando la qualificazione ai mondiali, povera com’era di stelle e di campioni, è purtroppo, più del Pil o dello spread, un indice abbastanza attendibile delle difficoltà in cui il Paese si dibatte.
Poi, a fine agosto si ricomincia, e magari cambia la musica. Magari la Nazionale di Mancini sarà un’altra cosa. E i talenti: quelli ci vuole pure fortuna, ad averli. Ma il mondo del calcio, tra scandali e litigi in Lega, diritti televisivi ballerini e impianti che costruirli è un complicatissimo percorso ad ostacoli, presidenti-padroni vecchio stile e nuove, asiatiche proprietà avvolte ancora nella nebbia, non sembra certo mostrare un Paese in salute, fiducioso nei propri mezzi, unito intorno a obbiettivi comuni.
Colpa dell’euro, allora, se Ventura ha mancato la qualificazione alla fase finale del mondiale, se Gabbiadini e Immobile non l’hanno messa dentro? (Domanda impietosa, mi rendo conto, dopo aver visto la tripletta di Ronaldo contro la Spagna). Ovviamente no. Ma ho il sospetto che l’euro c’entri fino a un certo punto anche con la crisi italiana. Che ha a che vedere con una molteplicità di cause, anche interne - coi ritardi del sistema produttivo, con l’alto debito pubblico, con le lentezze della burocrazia e la farraginosità delle norme – e con la mancanza di una visione organica, di sistema, in grado di orientare le decisioni pubbliche secondo un disegno coerente. 
Da ultimo aggiungerei, tra i fattori determinanti, anche il sentimento di sfiducia, anzi di rigetto, nei confronti della classe dirigente. Poi però ognuno ha le sue responsabilità. E sarebbe bene che se le prendesse. Il ct della Nazionale Ventura può pure dichiarare, dopo l’esonero, di essersi sentito delegittimato fin dal giorno del suo insediamento. Ma fino a un minuto prima dell’eliminazione lui stesso sosteneva invece, baldanzoso, che avremmo fatto un grande mondiale. Un minuto dopo, perbacco: si è accorto di essere finito in qualcosa più grande di lui. E francamente, se uno vede il maestro Tabarez esultare con le stampelle sulla panchina del Paraguay, viene proprio da dargli ragione: il Mondiale sarebbe stata una cosa troppo più grande di lui.
Ora però, basta prendere il calcio come metafora: godiamoci (come possiamo) le partite, e speriamo che all’Italia le cose vadano un po’ meglio di come sono andate alla nazionale e a mister Ventura.
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