La strategia jihadista e i suoi scudi

di Carmine Pinto
Martedì 7 Novembre 2023, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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Le guerre di Hamas sono totali. Non solo per gli israeliani, visto che tra le sue principali vittime sono i palestinesi. Solo per ultima si è espressa la presidente della Commissione europea. Ursula Von der Leyen ha detto che Hamas usa gli abitanti di Gaza come scudi umani e come strumenti di propaganda. In realtà, i dati e le immagini parlano chiaro. Hamas ha costruito i suoi tunnel e le sue basi nei quartieri più popolosi, vicino a scuole e piazze, soprattutto, sotto gli ospedali.

I terroristi del resto non lo negano. Ismail Haiyeh, leader politico, ha diffuso un video in cui dice esplicitamente che serve il sangue di donne, anziani e bambini di Gaza. In questo modo si motivano e giustificano gli obiettivi di Hamas: fondare il nuovo stato islamico-palestinese. Il capo militare di Hamas, Yahya Sinwar, è al centro di questa strategia. Lui e i suoi uomini non hanno avuto nessuna remora a massacrare e sequestrare civili israeliani indifesi. Ora, a Gaza, si nascondono proprio nel cuore delle città, senza affrontare mai a viso aperto l’esercito israeliano, ma usando case, infrastrutture e quartieri civili per nascondersi o contrattaccare.

Se Hamas voleva dimostrarsi capace di una guerra totale, condizionando alleati e nemici con la sua determinata spietatezza, ci è riuscita. Il suo secondo obiettivo è ancora più importante: conquistare la rappresentanza del mondo palestinese. All’interno di una storia intricata sia a livello internazionale che tra i palestinesi stessi, Hamas nasceva negli Ottanta come braccio locale dei Fratelli Musulmani, lontana dall’Olp di Yesser Arafat. Il suo statuto era denso di teorie complottiste, escatologiche, negava l’Olocausto e prometteva la cancellazione di Israele, con la creazione di una repubblica islamica.

L’organizzazione è cresciuta negli anni Novanta, mentre gli Usa negoziavano tregue ed accordi tra Israele e l’Olp. Hamas diventò una alternativa crescente alla formazione laica e socialisteggiante prima di Arafat e poi dell’Autorità Nazionale Palestinese. Senza giungere a scontri diretti, anche a volte alleati, ma con un progetto opposto: costruire uno stato nazionalista e teocratico, sul modello iraniano. A partire dal nuovo secolo, lo scontro con i vecchi nazionalisti socialisti palestinesi diventò inevitabile. Nel 2006 Mahmūd Abbās diventò presidente dell’Anp, unico interlocutore dei paesi occidentali e con un certo sostegno di alcuni paesi arabi e degli Usa. Hamas invece era sempre più forte e radicalizzata, sostenuta da un gruppo di paesi come Qatar, Siria e Iran. 

Con le sue forze paramilitari, le brigate Izz al-Din al-Qassam e Martiri di al-Aqsa prima fu protagonista della seconda Intifada. Poi, dopo le prime elezioni palestinesi, si impadronì di Gaza con una cruenta e feroce battaglia contro gli uomini dell’Anp. L’incendio e il saccheggio delle case di Arafat e di Abbas furono il simbolo della divisione dei palestinesi in due entità para statuali (Gaza e Cisgiordania), una teocratica e una laicizzante, durata fino ad oggi.

Oggi Hamas, da sempre protagonista di attacchi terroristici su varia scala, ha lanciato la sua grande guerra. Per ora è riuscita a relegare nell’ombra la vecchia Anp (in sedici anni dopo la rottura non sono mai riusciti a riconciliarsi), rappresentando fino a pochi giorni fa il presidente Abbas come un vecchio debole inefficace. 

La competizione tra palestinesi, per Hamas, è anche il tentativo di ottenere una legittimazione globale mediatica e uno spostamento di equilibri nel mondo musulmano. Con il massacro del 7 ottobre è riuscita a mettere in ombra le altre crisi globali, compreso la guerra russo-ucraina. Nel mondo in prima pagina c’è la guerra di Gaza. Inoltre, ha saputo usare una parte importante del pacifismo ideologico occidentale, da sempre antiamericano, antiliberale e ora anche antisemita. Questo ambiente militante, a volte influente in mondi dell’accademia e della comunicazione, ha confuso in buona o in cattiva fede Hamas con la causa palestinese. 
Hamas ha ottenuto anche un certo successo nello strumentalizzare le vittime civili di Gaza, annunciando numeri non verificabili, trasformando i suoi scudi umani in una eccellente occasione di propaganda. Una operazione supportata soprattutto dall’Iran, il vero destabilizzatore della regione. Gli Ayatollah, infatti, sono stati decisivi nella distruzione del Libano, ora ostaggio di Hezbollah, sono presenti in Siria, in Irak e nello Yemen, con milizie, alleati e risorse. Propongono un modello di stato teocratico che, ad oggi, ha respinto tutte le mobilitazioni civili di donne e oppositori interni.

La guerra di Hamas non è però conclusa. La sua spietatezza ha motivato una potente reazione politica e ora militare israeliana, sostenuta dagli stati liberi occidentali. I caratteri dell’operazione del 7 ottobre, per ora oscuri nella costruzione strategica, l’hanno isolata militarmente. Per ora né Hezbollah, né l’Iran, mostrano la volontà di un intervento. Del resto, questo determinerebbe una reazione degli Usa. Peggio ancora a Gaza. Gli uomini di Hamas per salvarsi si trincerano dietro gli ostaggi e dietro la richiesta di un cessate il fuoco, ma gli israeliani non gli consentono questo vantaggio. 

Inoltre, per quanto in qualche università e in qualche piazza sfilano gli amici occidentali, Hamas non è riuscita a scalfire la compattezza degli stati democratici verso Israele. Infine, c’è la sfida forse più pericolosa per l’organizzazione, chi rappresenterà i palestinesi? In campo c’è la proposta Blinken, in pratica gli Usa accreditano l’Anp di Abbas per gestire Gaza dopo la distruzione di Hamas. Questo significa non solo una transizione, ma la riunificazione dei palestinesi in una unica entità, la premessa dei due Stati di cui parla, prima di tutti, Biden. In sintesi, Hamas ha ottenuto per ora il massimo successo, di converso una sua sconfitta completa potrebbe favorire una riorganizzazione dei palestinesi e dell’intera area in termini del tutto opposti ai suoi obiettivi. 

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