Il Principe come specchio di Napoli
città sospesa tra lacrime e sorrisi

Il Principe come specchio di Napoli città sospesa tra lacrime e sorrisi
di Pietro Treccagnoli
Martedì 11 Aprile 2017, 22:58
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 A sentire le voci di dentro, gli echi della grande anima di Napoli che dai vicoli e dalle piazze raggiungono il mondo intero, a sentire la città che ricorda il Principe della Risata, si capisce subito che Totò, la maschera e il volto, non è mai morto. Guai a chi si permette anche solo di alludervi. A sentire Napoli, cinquant’anni dopo, si comprende senza paraventi mentali che la livella non è riuscita a far diventare l’attore più amato, più citato, più umano e fraterno d’Italia, morto tra i morti, uguale agli tutti gli altri, perché Totò è vivo, ride e continua a far ridere. Be’, a sentire Napoli che rievoca l’attore e il genio, nel documentario-omaggio che Luca Apolito ha realizzato per la serata del «Mattino» al cinema Filangieri, «Il segreto di Totò», si scopre che esiste una triade, una profana (almeno in parte) trinità che sorregge e consola i giorni e le ore di chi vive all’ombra del Vesuvio. Una triade e una classifica, come hanno sintetizzato tanti anonimi e meno anonimi concittadini di Antonio de Curtis.

Al vertice non può che esserci san Gennaro, ma subito sotto c’è lui, Totò. E appena dopo Diego Armando Maradona. Altri simboli, altrettanto popolari nell’immaginario della strada, sono un gradino più sotto, fuori dal podio. Non a caso, come testimonia uno storico librario-bancarellaro di Spaccanapoli, dopo la Bibbia il libro più venduto in città è proprio «’A livella», in particolare la storica edizione di Fausto Fiorentino con la copertina rossa. E proprio la poesia più famosa, che è sempre stata una sfida alla memoria di ogni giovane napoletanofono, sta diventando un cortometraggio, lungo una decina di minuti, realizzato da Francesco Paolantoni (tra gli artisti che ieri sera hanno testimoniato dal palco del Filangieri la propria devozione a Totò).

L’attore interpreterà tutt’e tre le «parti» della celebre e celebrata ode a una giustizia a un’eguaglianza ultraterrene. Sarà, con la regia di Nello Mascia, il narratore, sarà il marchese e sarà il netturbino (‘o scupatore) che si aggireranno davvero tra le tombe del cimitero di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. È in fase di montaggio. Una volta completato andrà a portare la meraviglia delle parole del figlio del Rione Sanità in giro per festival, rassegne, incontri. Totò e la città, quindi. Ma Totò è anche la città che in lui si è sempre identificata, quando faceva ridere, quando faceva pensare e quando faceva ridere e pensare nello stesso tempo.

Due sillabe ripetute, to-to, per sigillare una fratellanza nata nell’allegria e cresciuta in una perenne contemporaneità. Perché Napoli si è sempre specchiata in Totò. Ogni giorno ripete le battute dei suoi film diventate ormai proverbiali, patrimonio di tutti, senza più diritti d’autore, ma con doveri di umore, battute che sanno racchiudere sentimenti e risentimenti in due o tre parole, che riescono a troncare o ad aprire un discorso, che possono smontare la rabbia o che riescono a neutralizzarla in una formula senza tempo. Totò, lo si è capito dalle immagini che scorrevano sullo schermo ma anche dalle reazioni nella sala piena di Chiaia, è ormai un emblema più che un uomo di celluloide.

Napoli si riflette in lui, ne ha fatto un felice segno identitario, perché la sua maschera non ricopre mai il volto, quella inconfondibile faccia deragliata, perché Totò non ha bisogno di una maschera, come invece è indispensabile a Pulcinella, l’altro universale filosofo del pensiero meridiano. Le sue parole sono diventate familiari e sono citate come formule magiche. Possono farsi persino rap come hanno mostrato in scena I Virtuosi di San Martino. Le gag e i duetti con l’inseparabile Peppino de Filippo, con Macario, con Nino Taranto e tutte le altre gigantesche sue spalle (meglio dire coprotagonisti e antagonisti) attraversano le generazioni e i generi. Segno che Totò è riuscito a sfuggire a ogni forma di imbalsamazione, di riduzione a stereotipo. È invece carne viva alla quale ogni giorno e in ogni luogo si rende costantemente omaggio. Basta attraversare le strade della Napoli più popolare per incontrare il Principe sui calendari, in fotografie, su altarini accanto a icone sacre, sulle t-shirt, in magneti.

Attaccato alla parete di un bar, incorniciato assieme a Peppino, mentre i due bevono un caffè nella «Banda degli onesti», una sorta di mise-en-abime autenticamente pop con chi al banco sta proprio sorseggiando dalla bollente tazzulella.
O lo si incontra immortalato in statuina del presepe, in busto bianco da tenere sulla scrivania o su una mensola e guardarlo in cerca dell’ispirazione o di un sorriso prodotto dalla memoria mai scalfita di uno dei film che non hanno mai smesso di passare sullo schermo di casa. A via Santa Maria Antesaecula, nella sua Sanità, a via Toledo, nei Quartieri Spagnoli, ma anche al Vomero e in periferia, Totò c’è. Nume tutelare, santo laico, ma pure beffatore e seduttore (talvolta sedotto da una malafemmina), capace di far lievitare un sottinteso in uno fragoroso fuoco d’artificio di erotismo mai volgare. Cinquant’anni dopo, Totò è vivo e lotta, a modo suo, insieme a noi napoletani, con una risata che richiama l’applauso. Sempre.
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