Il percorso in salita per riformare le pensioni

di Paolo Balduzzi
Martedì 23 Aprile 2024, 23:46 - Ultimo agg. 24 Aprile, 06:00
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Per spiegare a uno straniero, ma anche a molti italiani, l’evoluzione del nostro sistema pensionistico, può essere utile ricorrere all’immagine di un pendolo. Nel 1919, anno in cui diventa obbligatorio, il sistema previdenziale pubblico era a capitalizzazione: i contributi di ogni lavoratore dovevano essere investiti e ifrutti di quegli investimenti avrebbero fornito le risorse per la propria pensione.

Nel 1945, dopo che la Crisi del ’29 e, soprattutto, un conflitto mondiale distrussero buona parte del capitale esistente, si capì che tale sistema non sarebbe stato sufficiente. Vennero così introdotti i primi elementi della ripartizione: i contributi di ogni lavoratore non avrebbero più finanziato le proprie pensioni ma quelle di chi aveva già smesso di lavorare. Un sistema all’apparenzamagico, che sembrava creare “pasti gratis” (così li chiamano gli economisti) e benefici anche per chi non aveva mai contribuito.

La fortuna del sistema fu talmente grande che, negli anni ’70, la ripartizione divenne l’unica modalità organizzativa del sistema pensionistico italiano. Dopo altri venticinque anni, tuttavia, ecco che si sentì di nuovo l’esigenza di tornare indietro. L’economia non cresceva più come prima, il miracolo economico italiano era lontano, i conti pubblici in profondo rosso e la popolazione sempre più anziana: nel giro di pochi anni vennero introdotti i fondi pensione (1993) e, soprattutto, una riforma del metodo di calcolo delle prestazioni che, pur restando nel meccanismo a ripartizione, ne simulava uno a capitalizzazione: il metodo contributivo. Era il 1995 e, come l’asta di un pendolo che avanza e torna indietro, ci si poteva attendere che questo sistema misto sarebbe evoluto nuovamente verso la capitalizzazione pura. Ciò non avvenne.

E la ragione fu che quei famosi “pasti gratis” avrebbero richiesto unpagamento immediato del loro conto. Elettoralmente meglio, quindi, rimandare decisioni impopolari al futuro e, nel frattempo, scaricare tutto il costo delle riforme sulle generazioni più giovani(o non ancora nate). A questa storia di lungo periodo se ne sovrappone quindi un’altra, di più breve portata, che riguarda gli ultimi trent’anni. In questo caso, è un elastico l’immagine più efficace a rappresentare l’orientamento del legislatore in materia. Il 1996 segnò un cambiamento di paradigma solo per chi ancora non aveva cominciato a lavorare. I quindici anni seguenti, quelli cioè che separavano dalla riforma Fornero del 2011, furono anni di caotica chiusura delle falle che continuamente si aprivano nella carena della nave.

Quote, scaloni, finestre mobili: ogni nuovo governo aveva la sua ricetta, puntualmente inefficace e puntualmente sostituita, senza miglior fortuna, dall’esecutivo successivo. Un vero e proprio “tira e molla”, come appunto sifa con un elastico. E quando questo sfuggì dimano, ci sifece male. A inizio 2012 ci ritrovammo a fare i conti con le conseguenze, crudeli ma necessarie, di quel periodo.

Lo scatto dell’elastico portò all’immediato innalzamento delle età di pensionamento a 66 anni (e poi oltre). Ma quell’allungamento fu breve. Nel giro di poco tempo, già lo stesso governo Monti riprese a fare ciò che tutti avevano fatto prima: addolcire la cura e trovare eccezioni alla regola.In alcuni casi, l’intervento fu equo e doveroso (si pensi ai cosiddetti “esodati”); in altri, specie con i governi successivi, fu molto meno giustificato. La continua rincorsa a modalità di anticipo pensionistico non ha fatto altro che avvicinare un nuovo scatto dell’elastico, che, quando accadrà, si abbatterà sulle corti più prossime alla pensione. Questo, almeno, è quello che i numeri raccontano a chi li vuole leggere. E quelle nefaste tendenze demografiche di fine secolo non si sono certo risolte, anzi. In questo quadro, prima o poi, dovremo accettare che la riforma Fornero torni integralmente in vigore. Ci sono anche modi meno traumatici per sistemare i conti previdenziali? Vale la pena di provare. Uno potrebbe essere quello di trovare fonti di finanziamento alternative ai sempre più scarsi contributi previdenziali. Certo, non sarebbe una soluzione strutturale. Ma quando l’acqua raggiunge la gola, conta poco come si riesce a recuperare qualche boccata d’ossigeno. L’erario dovrebbe quindi guardare con più attenzione al lato positivo dell’invecchiamento della popolazione, cioè alle risorse che in termini di risparmio e di investimenti la cosiddetta “silver economy” porta con sé. Il secondo modo, che sarebbe anche la soluzione più adatta, è invece quello di una conversione immediata, a ritroso e generalizzata di tutti i profili previdenziali al metodo contributivo. A fronte, non bisogna nasconderlo, di pensioni più magre, ciò permetterebbe ai lavoratori una più ampia e libera scelta rispetto alla lunghezza delle proprie carriere. Una proposta del genere, peraltro, era proprio nell’agenda del governo Meloni, non appena entrato in carica. È dunque il caso di riaprire quel cassetto: uno dei tanti dove giacciono quelle riforme necessarie al Paese che pochi ministri e Presidenti del consiglio, finora, hanno avuto il coraggio di considerare.

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