Il bambino e l'acqua sporca della questione meridionale

di ​Massimo Adinolfi
Mercoledì 10 Ottobre 2018, 22:41
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Distinguiamo. Lo so, è più faticoso che prendere tutto in blocco o rifiutare tutto in blocco, ma è necessario se non si vuole buttar via il bambino con l’acqua sporca. Il bambino è il Mezzogiorno, e l’acqua sporca sono le retoriche che fioriscono sul Sud.
O che sfioriscono, perché il meridionalismo sembra ormai un genere letterario dal quale tenersi alla larga. Per non ripetere vecchi cliché.
Per non essere iscritti d’ufficio al partito neoborbonico. Per non vedersi appioppata l’etichetta dei soliti piagnoni. Per non mescolarsi con l’acqua sporca, insomma.
Così il governo del cambiamento può nascere felice e facondo sulla base di un contratto di pagine cinquantotto, in cui trovano doverosa attenzione pure il bullismo e il gioco d’azzardo, ma che al Sud dedica otto righe otto. In cui, peraltro, si dice che di misure specifiche non ne occorrono affatto. Certo, il gap tra Nord e Sud esiste, ma tutte le scelte politiche previste nel contratto «sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese» (mi sia concessa un po’ di spocchia: l’italiano tra virgolette non è il mio). E qui finisce la questione meridionale.
Era già finita? Forse sì, se è vero che la seconda Repubblica ha scalzato quel principio di legittimazione della politica democratica che era consistito, lungo tutto il dopoguerra, nel riconoscere, tra i propri compiti storici, il superamento del dualismo tra il Nord e il Sud del Paese. È vero, la Lega del Senatùr, che nel ’94 andava al governo col Cavaliere a colpi di federalismo e secessione, non c’è più, al suo posto c’è Salvini che prende voti pure a Napoli e i Cinque Stelle che con il reddito di cittadinanza hanno fatto il pieno di consensi in tutte le regioni meridionali, andando sopra il 50%. Ma non per questo nell’agenda politica del Paese è tornato il Mezzogiorno.
È bene così? Uno mette in fila la Cassa per il Mezzogiorno e l’intervento straordinario, poi la legge 488 e il sistema di incentivi pubblici, infine i diversi capitoli dei fondi europei, dopodiché constata che, però, siamo più o meno sempre allo stesso punto: il Paese duale è ancora lì, il Nord in Europa e il Sud in Africa, come a volte si dice con una punta di malcelato razzismo.
Cos’è: una maledizione? Una colpa atavica che si trasmette di generazione in generazione? Oppure è la solita storia: c’è tanto di quel sole, e fa caldo, e ci vogliamo più bene ma siamo pigri e indolenti? È il famoso familismo amorale?
Maurizio Crippa, su «Il Foglio», non vede ormai, a queste latitudini, molto più che un meridionalismo straccione, «un amalgama di rancore, di isolazionismo, di revisionismo storico gonfiato a livello di fake news». Forse ha ragione. Perché è vero che in libreria i libri neoborbonici di Pino Aprile son quelli che vendono di più, ed è bello pensare che è tutta responsabilità dei Piemontesi (ma non sono passati 150 anni?). Così come è vero che ci sono quelli che, in chiave antagonista, anticapitalista e altermondialista, e in nome di tutti i Sud del mondo nella modernità europea non ci vogliono proprio entrare: ne vogliono un’altra, va’ a capire quale. Ed è vero infine che i voti ai Cinque Stelle si sono nutriti di rancore. Lo diceva pure il Censis, per la verità dell’Italia intera: risentimento e nostalgia alimentano la domanda politica, tanto più in tempi di crisi e di blocco della mobilità sociale.
Però distinguere si deve; si può. Di tanta retorica sudista ci si può sbarazzare senza per questo rinunciare a un’autentica voce meridionalista, a un pensiero e a una visione della società che non ne voglia sapere di localismi presuntamente virtuosi o di benecomunismi in salsa antistatuale. Una voce che è in grado di denunciare lo stato di minorità in cui versa il Mezzogiorno, ma che al tempo stesso non apprezza le scorciatoie populiste e ha molti motivi di temere che il reddito di cittadinanza finirà per conservare questo stato, non per cambiarlo. Perché non aumenta il numero di chilometri ferroviari, di asili nido o di laureati. Non modifica i livelli di spesa per investimenti e non porta un solo posto di lavoro in più.
Una voce simile non ha molta udienza, oggi. Ma questa è una ragione in più, non una di meno, per farla sentire. Per non lasciare il campo a quelli che propongono ancora e sempre ricette puramente elettoralistiche e clientelari, ma nemmeno a quelli che, per noia, stanchezza o sfiducia, pensano che di ricette, cioè di strategie pubbliche di crescita e di una nuova responsabilità delle classi dirigenti, non vi sia più alcun bisogno.
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