Haynes, gioco di specchi che non sa emozionare

di Valerio Caprara
Giovedì 21 Marzo 2024, 23:59 - Ultimo agg. 22 Marzo, 06:00
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Todd Haynes, specialista del melodramma americano, firma con “May December” un gioco di specchi e finzioni affidato a Natalie Portman e Julianne Moore, due tra le più stimate attrici contemporanee particolarmente versate nel genere. Il titolo propone un’espressione introducibile in italiano che, a dire del regista, alluderebbe all’illecita relazione di un ragazzo con una donna adulta: in questo caso si tratta della sessantenne Gracie (Moore) condannata quando aveva trentasei anni per avere avuto rapporti sessuali con Joe (Melton) che all’epoca ne aveva solo tredici.

Dopo avere scontato un morboso assedio dei media scandalistici e qualche anno di prigione, Gracie aveva sposato l’imberbe amante e vissuto una serena vita coniugale ma vent’anni dopo ecco presentarsi nella sua edenica magione di Savannah l’attrice Elizabeth (Portman) che sta per interpretarla in un film indipendente… Le indagini di quest’ultima, motivate dal progetto d’immedesimarsi nel personaggio caro agli adepti del cosiddetto metodo Stanislavskij, rischieranno di riaprire il trauma sofferto dai reduci del caso ispirato a quello vero occorso a Mary Kay Letourneau, un’insegnante di matematica rimasta incinta di un suo studente dodicenne. Il soggetto di “May December” è stimolante, il cast, come premesso, è all’altezza e la messa in scena adeguatamente supportata dalla colonna sonora di Marcelo Zarvos che a più riprese rielabora il tema di Michel Legrand composto per il cult movie “Messaggero d’amore”.

È chiaro come il regista - cercando di destrutturare progressivamente un faticoso (o finto?) equilibrio - intenda mettere in discussione le verità nascoste e i rapporti di dominio esistenti all’interno di una coppia tradizionale, mentre il suo sguardo sulla morale upper class assomiglia a quella dell’entomologo alle prese con gli insetti: si dovrebbe, così, materializzare sullo schermo la metafora dello spettatore che scruta Elizabeth mentre scruta prima Gracie e poi il marito, che a sua volta scruta i bruchi chiusi in una scatola mentre si trasformano in crisalide… Insomma l’ennesima sfilata d’immagini della quotidianità americana che a uno sguardo più attento, come succede nei celebri dipinti di Hopper, sembrano sempre nasconderne molte altre e molto più inquietanti.

Sta di fatto, purtroppo, che il “triello” tra le due donne e l’uomo sembra troppo machiavellico per risultare destabilizzante e troppo banale per suscitare qualcosa di più della commiserazione, con la conseguenza che non riesce ad avvincere neppure il torbido avvicinamento dell’attrice all’ancora giovane Joe culminante in una sequenza hot più clinica che sensuale.

Questa opzione stilistica, l'uso reiterato degli zoom, la fotografia di Christopher Blauvelt forse conformata al fangoso mondo dei tabloid in cui Gracie si è ritrovata a suo tempo invischiata e il tentativo di usare la cinepresa come un attrezzo per scrostare la vernice dai fatti stabiliscono una netta distanza tra il narratore e i personaggi impedendo allo spettatore di assistere a un colpo d’ala, di svincolarsi dal gelido referto. In definitiva un film che vuole essere sofisticato ma in pratica risulta greve e verboso facendo sì che l’intrigo non coinvolga mai.

“Inshallah a boy”, opera prima di Amjad Al Rasheed e primo film giordano presente e premiato a Cannes si sarebbe potuto intitolare anche “Speriamo che sia maschio”.

Si tratta, infatti, di un conciso ma efficace film-verità che punta a trasmettere un messaggio di emancipazione e di speranza rivolto alle lotte delle donne in Iran e nei paesi arabi sottoposti alla Shari’a, il complesso di regole di vita e di comportamento dettato da Allah per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli. La trama si svolge nell’odierna Amman dove la giovane sposa Nawal, madre di una bimba, nuovamente incinta e rimasta improvvisamente vedova, deve affrontare un autentico calvario affinché siano rispettati i primari diritti ereditari: in Giordania, dove vige appunto la Shari’a, se una donna perde il marito e non ha un figlio maschio, parte dell’eredità va ai suoceri o ai parenti stretti del defunto. Su tale esile quanto inaudito tema il regista confeziona un vibrante thrilling sociale che costituisce principalmente un coraggioso atto d’accusa contro il sistema patriarcale ed è strano come la connessa denuncia dei regimi adepti del fondamentalismo islamico non goda di uguale fortuna nei Paesi occidentali. 

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