«Ha speso troppo e non incassa
così Comune sull’orlo del baratro»

«Ha speso troppo e non incassa così Comune sull’orlo del baratro»
di Nando Santonastaso
Lunedì 13 Novembre 2017, 23:13
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«I bilanci preventivi dei Comuni esigono un’attenzione sempre maggiore: non si può più pensare di spendere ciò che non si incassa». Davide Di Russo, torinese, numero due dei dottori commercialisti italiani, studia da anni nell’ambito della Fondazione dell’Ordine nazionale di categoria la drammatica situazione finanziaria di molti, troppi enti locali italiani. E il caso-Napoli è da tempo in cima ad una lista che fa spavento: 107 enti in dissesto, 163 in predissesto (la fonte è l’Ifel, l’Istituto della finanza locale dell’Anci, l’Associazione dei Comuni d’Italia). E una spesa che sale fino al 18% nei già magri bilanci comunali per pagare gli interessi sul debito. Da quella lista, però, è sempre più difficile uscire. «Napoli vi fa parte da parecchio, ci sono criticità come a Torino e in altri capoluoghi di provincia che vanno eliminate per non far ricadere sui figli le responsabilità dei genitori», dice Di Russo. Che aggiunge: «Non conosco nel dettaglio la situazione del Comune partenopeo ma in linea generale appare sempre più chiaro che senza un’adeguata rigidità nella definizione degli strumenti di bilancio, come sul versante della riscossione, certe difficoltà rischiano di non essere superate». Non è un caso che l’Osservatorio sulla finanza locale, istituito presso il Viminale, stia per rendere noti i nuovi indici di corretta amministrazione degli enti locali con l’obiettivo di stringere sempre di più il cerchio attorno a chi i conti non riesce comunque a risanarli.

La «stretta», se veramente ci sarà, dovrà fare comunque i conti con la politica. Perché alla fine, come già è avvenuto nel recente passato proprio per il Comune di Napoli (e dopo per Roma), è una scelta politica garantire più tempo per risanare i conti anche se la scadenza dei cosiddetti piani di riequilibrio coinvolgerà altri amministratori e se i risultati del risanamento sono tutt’altro che accettabili. Un paradosso che sa quasi di beffa. «In effetti - spiega Marco Catalano, viceprocuratore generale della Corte dei Conti in Campania - è il legislatore che consente di presentare piani di durata pluriennale che di fatto riavviano quasi daccapo il meccanismo di risanamento. E questo anche per noi magistrati contabili si traduce in un ulteriore appesantimento dell’azione di controllo e di verifica». Per non parlare, come detto, del paradossale rapporto che si viene a generare tra il contribuente che paga regolarmente le proprie imposte e l’efficacia del piano di risanamento: «Il primo deve ottemperare, come dovrebbero fare tutti, ai suoi doveri nei tempi indicati, pena multe e sanzioni o misure similari; l’altro, il piano cioè, può avere anche 20 anni di tempo per manifestare la sua efficacia, solo che a quel punto sarà molto difficile chiederne conto, almeno politicamente, agli amministratori che l’hanno presentato», aggiunge Catalano. Ma allora sarebbe meglio dichiarare subito il dissesto? Il magistrato non ha dubbi: «Lo penso a livello personale e senza riferimenti specifici a questa o quella città: se il malato resiste a ogni cura la soluzione del dissesto è l’unica strada percorribile». 

Naturalmente anche in questo caso è la politica a dire l’ultima parola. Ancora Catalano: «Avevamo una norma del 1999 che si occupava delle grandi imprese fallite con molta chiarezza. Dopo il fallimento di una nota azienda alimentare del centro Italia (il crac Parlamalat, ndr) si è introdotta una nuova norma che prevede i piani di risanamento come alternativa all’avvio delle procedure fallimentari. Lo stesso è avvenuto per la finanza locale specie in presenza di grandi Comuni con i bilanci in rosso». Insomma, un conto è lasciar marcire nei guai finanziari piccole ma insignificanti realtà comunali, un altro è evitare pesanti conseguenze anche politiche alle città più grandi. E pazienza se per evitare il dissesto la qualità dei servizi offerti ai cittadini continua a restare scadente e se la gestione delle società partecipate rimane un’idrovora di risorse pubbliche. O la riscossione di multe e sanzioni al di là delle buone intenzioni proprio non riesce ad andare, come la storia recente conferma proprio a Napoli. 
«Riparlare di dissesto adesso non ha più senso perché tecnicamente non lo si può più riproporre - dice Enzo Moretta, presidente dell’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli - Quello che conta adesso è che la città si rimetta in moto e che il governo dia alla proposta presentata dal sindaco de Magistris la necessaria attenzione. Naturalmente però questa volontà politica dev’essere accompagnata da una svolta non più rinviabile sui nodi che attanagliano l’amministrazione finanziaria della città: mi riferisco alla dismissione del patrimonio immobiliare, alla stretta sui tributi, alla riscossione di multe e ammende varie. Sono tutti capitoli necessari a riportare fiducia nell’operato dell’amministrazione e a garantire una prospettiva finanziaria più solida alla città». Moretta è ottimista sull’arrivo in giunta di «professionisti di valore, persone capaci di avviare a soluzione questi problemi». Ma al tempo stesso è preoccupato per lo stato dell’arte della finanza locale: «La coperta è corta - aggiunge il commercialista - perché i nuovi paletti imposti agli enti locali per ridurre la spesa della pubblica amministrazione sono pesanti. Se lo Stato per varare la legge di Bilancio è costretto a un lavoro tecnico-contabile minuziosissimo, come dimostra il dibattito di questi giorni sulla manovra in Parlamento, si può ben comprendere come sia doppiamente complicato far quadrare i conti di enti con grossi problemi alle spalle come il Comune di Napoli».

Ci si deve insomma rassegnare? Meglio tirare a campare (per estremizzare il concetto) con quello che c’è, anche a costo di indispettire i cittadini contribuenti, o si deve «per forza» cambiare registro? Le domande non sono affatto retoriche se si considera - come emerge dall’ultimo rapporto su Finanza locale di Cassa Depositi e Prestiti - che sugli enti locali periferici si è abbattuta la scure più pesante del piano di risanamento della finanza pubblica dei governi. Mentre al centro la spesa delle amministrazioni è clamorosamente cresciuta anche negli anni della durissima crisi economica, in periferia la corsa al risparmio (imposta) ha prodotto conseguenze nefaste: taglio dei dipendenti pubblici, specie al Sud, e soprattutto degli investimenti in conto capitale, per essere più cari di cantieri e lavori pubblici che alimentavano un’economia locale tutt’altro che secondaria. Naturalmente questo scenario, al di là della sua indiscutibile credibilità economico-finanziaria, ha finito ben presto per trasformarsi in un alibi politico cavalcato dai sindaci in difficoltà non solo con i conti ma anche con i loro elettori. «Ma attenzione - osserva Raffaello Lupi, tributarista tra i più accreditati in Italia e spesso controcorrente - non è scontato affatto che per risolvere i problemi finanziari dei Comuni il dissesto sia la strada migliore anche per i cittadini. Il default di un grande ente pubblico, come Napoli, è come il default di una banca, né più né meno: l’effetto non solo sul piano dell’immagine ma anche sotto altri aspetti sarebbe catastrofico». Vediamo perché: «Intanto perché bisogna comunque che il Comune assicuri i servizi ai cittadini: ma chi tra i fornitori di quel Comune se la sentirà ancora di fare credito in presenza di una dichiarazione di dissesto? E ancora: il debito di un Comune non è assimilabile a quello di una famiglia perché, e non sembri un paradosso, è sempre più gestibile dell’altro. Nel senso che sarà sempre possibile girarlo a un terzo mentre quello della famiglia no. I margini di manovra insomma di un ente che vuole sopravvivere senza dichiarare dissesto esistono purché ovviamente si riesca a gestire il rapporto con i cittadini in maniera efficiente». E qui casca l’asino, verrebbe da aggiungere, perché raramente i piani di risanamento producono quell’effetto-choc che magari un po’ ingenuamente si sarebbe portati a immaginare. «Vero anche questo - conferma Lupi - ma è altrettanto vero che solo una buona amministrazione produce credito, lo stesso che vale sia per garantire i creditori e mantenere pressoché intatto il loro rapporto di fiducia sia per convincere i cittadini che tutto sommato si può accettare un certo livello di qualità dei servizi».

Insomma, tutto sembra congiurare perché al peggio quasi non si riesca a mettere fine. La politica ti tende una mano (e a volte molto più di una mano sola), i creditori non hanno interesse a che tu fallisca, i contribuenti non possono lamentarsi perché per loro potrebbe anche andare peggio: ecco servita la tempesta perfetta della finanza locale, con tanti saluti al dettato costituzionale che impone da Nord a Sud servizi e prestazioni pubbliche uguali per tutti e agli stessi costi. È in qualche modo la sintesi dello scenario con cui deve misurarsi chi opera sul campo, come Federico Pica, docente universitario prestato da qualche tempo all’assessorato comunale alle Finanze del Comune di Caserta, uno degli enti locali che dal dissesto (2011) sta cercando di emergere: proprio nei prossimi giorni, infatti, la Corte dei Conti dovrà pronunciarsi sull’ormai supercitato piano pluriennale di riequilibrio. «È un momento importante - sottolinea Pica che in questo campo ha già fatto un’analoga e delicatissima esperienza proprio al Comune di Napoli - e quindi bisogna attenersi ad una comprensibile prudenza. Di sicuro tutta la partita è nelle mani dei magistrati contabili e noi siamo fiduciosi che lo sforzo messo in essere per avviare il ritorno ad una gestione ordinaria della finanza locale venga premiato. Di sicuro sul piano generale ogni dissesto è un evento traumatico: lo fu per il Comune di Napoli a suo tempo, lo è stato per quello di Caserta. Ma non c’è una scelta che impone questa o quella soluzione: il dettato della legge è chiaro, per dichiarare dissesto un Comune non dev’essere in grado di assicurare i servizi essenziali e di far fronte alle spese. Di sicuro una volta che si dichiara, il default è irreversibile. Certo, una nuova amministrazione può dimostrare che le condizioni precedenti non esistono più ed è questo lo sforzo che stiamo producendo. Uno sforzo tecnico, più che politico però».

Ma allora perché, si domanda un economista del calibro di Mario Mustilli, già prorettore della Seconda Università di Napoli, «il Comune di Napoli non spiega una volta per sempre da dove nasce l’ulteriore richiesta di proroga dei tempi di risanamento? Cosa non è andato secondo le previsioni della precedente fase amministrativa? E perché i cantieri di via Marina sono fermi e i trasporti pubblici funzionano ancora male? Perché la riscossione delle multe resta una grande incognita? E se poi tra un anno la decisione di spalmare ancora il debito non producesse alcun effetto cosa succederebbe? Sono le domande più comuni che ogni napoletano da tempo si pone: peccato che a mancare sono sempre le risposte».
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