Geolier all'Università Federico II, perché il dialogo non deve fare paura

di Fabrizio Coscia
Sabato 23 Marzo 2024, 23:20 - Ultimo agg. 24 Marzo, 07:00
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Chi ha paura di Geolier? Perché la sua presenza annunciata nell’aula magna della sede di Scampia della Federico II fa storcere ilnaso e solleva polemiche? 

Intendiamoci: ciascuno è libero di pensarla come vuole e di esprimere il proprio dissenso, ma proviamo a capire anche quale meccanismo di difesa può provocare certe reazioni. Geolier è un rapper di grande successo e, nel suo genere, di indubbie qualità artistiche. La musica rap napoletana è ormai un modello di riferimento a livello nazionale e non solo, e lui ne è, al momento, il cantante più seguito (i posti all’Università per l’incontro di martedì sono andati esauriti in pochi secondi). Ma il rap, si sa, è una musica che nasce nei ghetti delle periferie. E la periferia, soprattutto a Napoli, è l’eterno rimosso del dibattito pubblico e politico.

Di periferia si parla solo quando ci scappa il morto ammazzato, la faida di camorra, il degrado. E dunque lo si fa per stigmatizzare, condannare, reclamare decreti-legge repressivi, invocare giustizia. Lo sifa, cioè, per rassicurarci che di periferia si tratta, ovvero di qualcosa che sta, per definizione, ai margini, non solo della nostra città, ma anche della nostra coscienza, e che dunque può essere mantenuto a distanza. Salvo poi farci una bella serie-tv di sicuro successo. E, dunque, che cosa succede se un giovane della periferia osa varcare i confini solo con le armi del suo talento e della sua determinazione? Semplice: si cerca di rimandarlo lì da dove viene, poiché incarna per noi quel perturbante che definisce ogni ritorno del rimosso. È il caso, appunto, di Geolier, che appena si è affacciato alla platea sanremese (anzi, ancor prima, appena si è saputo il testo della sua canzone) ha provocato le reazioni che tutti abbiamo visto e letto. Adesso, lo stesso Geolier si spinge perfino tra le mura dell’ateneo fridericiano.

Apriti cielo. E non importa se il rettore MatteoLorito loha invitato non per farglitenere una lezione o per conferirgli chissà quale premio, ma semplicemente per farlo incontrare con gli studenti, e perché gli è parso che questo incontro, in una sede universitaria come quella di Scampia, possa essere significativo, nella misura in cui l’ospite stesso è nato, è cresciuto e vive in un quartiere confinante, altrettanto difficile, e nonostante ciò, nonostante lo stigma del fallimento che a Secondigliano come a Scampia i ragazzi si portano dietro, è riuscito ad affermarsi coltivando la sua passione. Come mai un tale gesto di dialogo, di apertura alla città, e in particolare alla periferia della città da parte dell’Università viene allora interpretato come un «cedimento»? Forse a qualcuno piace immaginare la Federico II, e gli atenei in generale, come un hortus conclusus, una torre d’avorio immune da infiltrazioni perniciose che vengono dal basso? Se fosse così (e per fortuna non è) sarebbe terribile, sarebbe la mortificazione stessa della cultura e l’Università un lugubre, vuoto cenotafio.

Forse qualcuno reputa che Geolier avendo cantato la malavita nelle sue prime canzoni possa essere un modello negativo per i giovani? Ma sarebbe come condannare, che so, fatte le dovute differenze, i geniali «Racconti di Odessa» solo perché il grande Isaak Babel’ vi esalta le azioni criminali dei banditi che popolavano il quartiere ebraico della Moldavanka ai primi del Novecento.

Un narratore autentico racconta ciò che vede e conosce. Racconta il suo mondo, il suo quartiere, i suoi ricordi d’infanzia. E allora che cos’è che infastidisce davvero nel tentativo, da parte dell’università, di dare voce a un artista che può incoraggiare i tanti ragazzi della periferia ad avere fiducia nel loro talento enelle loro passioni, a non credere che si sia condannati alla resa solo perché nati nel posto sbagliato?

Leggendo in questi giorni la nuova edizione di «Insegnare al principe di Danimarca» (Sellerio), il bellissimo libro di Carla Melazzini, la compianta «maestra di strada» che racconta la sua esperienza nel Progetto Chance, sono rimasto molto colpito da un passo particolarmente duro: «Nei decenni che ho trascorso a Napoli - dice Melazzini - ho imparato cose istruttive, a proposito di radici. Ad esempio come l’esaltazione di una identità comune nasconda divisioni feroci, che fanno di Napoli la città più classista e razzista d’Italia. Un popolo basso che è riuscito a insediarsi sulle colline e a trasformarsi nella più tremenda piccola borghesia guarda con paura e disprezzo quelli che sono rimasti giù, dei quali ha in genere conservato e amplificato le peggiori caratteristiche».

Parole durissime, dicevo, ma su cui varrebbe la pena riflettere. Se la «napoletanità» intesa come «esaltazione della radice comune» nasconde davvero in sé una feroce lotta, il pregiudizio, l’esclusione, allora è bene comprendere che questo mito va smontato. «Da che mondo è mondo - scrive ancora Melazzini - chi ha la fortuna di sviluppare una identità sufficientemente forte e autonoma cerca di sfuggire ai lacci di ogni ghetto, sociale, culturale o etnico che sia. Solo così è possibile conservarne e tramandarne le qualitàmigliori». Ecco, a me pare che il dialogo aperto dall’università con Geolier e con ciò che lui rappresenta vada proprio in questa direzione: favorire l’uscita dal ghetto, di qualunque genere esso sia, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione di «una identità sufficientemente forte e autonoma», capace di conservare e tramandare, della «napoletanità», solo le qualità migliori.

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