​Dal partito popolare
alla protesta senza leader

di ​Mauro Calise
Domenica 9 Dicembre 2018, 22:48
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Il demone che sta mettendo a ferro e fuoco la vecchia politica – e i partiti che se ne nutrivano – è lo stesso che ne sta erodendo le radici da un ventennio. Si chiama personalizzazione. La sostituzione del principio collettivo – i cosiddetti corpi intermedi – con quello individualistico. La differenza degli ultimi anni è che il processo non viaggia più in tv, ma si diffonde – a velocità virale – attraverso i social media. Con la conseguenza che abbiamo sotto gli occhi. Prima, a menare le danze erano i leader – più o meno – carismatici, con i loro partiti personali. 
Oggi, comandano facebook e twitter. Ogni elettore – cittadino, gilet giallo – si muove in autonomia, sviluppando le proprie convinzioni nella solitudine autoreferenziale della rete e facendo – sempre grazie al web – cortocircuito con centinaia di migliaia di solitudini. Un individualismo di massa, come la società – e la politica – non avevano mai conosciuto.
Interpretare questi fenomeni è impervio per gli studiosi. Figuriamoci per il ceto di partito, abituato a vivere di rendita per mezzo secolo come intermediari obbligati delle risorse, e dei voti. La reazione di buona parte di loro è rifugiarsi nelle antiche certezze, sognando un ritorno al passato: intercettare meglio i bisogni, resuscitare la rappresentanza, esercitare con più efficienza la delega. Magari attraverso un congresso – come prova a fare il povero Pd – da svolgere con i medesimi riti di centocinquanta anni fa. Un linguaggio - e codici di comportamento – lontani migliaia di anni luce dai due milioni e mezzo di francesi coinvolti – secondo la stima di Cardini ieri sul Mattino – nella mobilitazione via internet delle scorse settimane in Francia. 
Gli unici che provano ancora a tener testa all’incontrollabile ondata anarco-narcisista della rete, sono i leader. Figli della stessa cultura - dell’uomo solo al centro del mondo - che hanno all’inizio cavalcato. E che oggi sono costretti a subire, perché il potere della televisione con cui avevano sfondato è inficiato dall’espansione geometrica del web. Che usa e moltiplica all’infinito anch’esso la potenza del visuale, ma sottraendola al monopolio verticistico dei canali Tv. Entrano così rapidamente in crisi i leader «cool» - secondo la definizione di Sofia Ventura su L’Espresso – la cui ascesa era dipesa dall’idea di rottamare il passato. Ma senza riuscire a stabilire una reale empatia con i seguaci, che si sono sentiti traditi da Renzi come da Macron, asserragliati nei loro palazzi. Mentre riesce ad accorciare le distanze chi – come Matteo Salvini – è bravissimo nel comunicare un’immagine casareccia e plebea. La leadership canotta e ragù che è valsa al capo della Lega il salto dal 17 al 36 (virtuale) nel giro di sei mesi. Nel mezzo – letteralmente in mezzo al guado – ci sono i Cinquestelle. Che avevano giocato d’anticipo nel mobilitare gli animal spirits della Rete. Ma che li hanno ingabbiati in una macchina digitale di centralismo cybercratico, che sta perdendo forza propulsiva.
Naturalmente, alla fine della fiera, occorre pur sempre governare. Prendere decisioni, imporre tagli, provare a far ripartire l’anemico motore dello sviluppo. Ma sarebbe un errore illudersi che la ragione – per giunta finanziaria – finirà col prevalere sulle pulsioni e illusioni sfrenate del popolo individualista della Rete. Siamo alle prese con un mutamento epocale. E siamo solo agli inizi. Niall Ferguson ha paragonato l’impatto di Internet a quello di Gutenberg, da cui nacque la società moderna. Ma c’è una differenza cruciale. La diffusione della stampa fu lenta (anche per la mancanza di carta!). Quella di Internet è fulminante. Dal 2013 al 2017, gli individui connessi sono passati da poco più di due miliardi a quasi quattro. Di questi, due miliardi e mezzo sono attivi sui social media. Due miliardi e mezzo di giornalisti improvvisati, che non hanno alcuna intenzione di farsi chiudere la testata. Anche se, nella maggioranza dei casi, non è scritta utilizzando la testa.
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