Arturo dopo la condanna della baby gang: «Mi volevano uccidere, nove anni sono pochi»

Arturo dopo la condanna della baby gang: «Mi volevano uccidere, nove anni sono pochi»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 9 Novembre 2018, 22:56
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Arturo è tranquillo, la sua vita è tornata “normale” già da un po’ anche se il ricordo di quel drammatico pomeriggio in via Foria, a due passi da casa, quando venne aggredito e accoltellato da un branco di baby bulli, gli torna in mente ancora troppo spesso. Non è facile dimenticare la paura di quegli istanti, il senso di assoluta impotenza al cospetto di un gruppo di piccoli/grandi delinquenti che, senza alcuna ragione, ti colpisce a coltellate con la voglia di mandarti all’altro mondo prima ancora che possa accorgertene. Arturo per fortuna la pelle l’ha salvata, ma le “ferite” gli fanno ancora molto male. Non quelle del corpo, sanate anche piuttosto presto grazie alla cura dei medici, ma quelle del cuore, e soprattutto della mente che ancora non riesce a farsene una ragione di tanta inaudita e gratuita violenza sfogata così. E la decisione del Tribunale dei Minori che ha condannato a nove anni e tre mesi i suoi aggressori, rigettando anche la richiesta di messa alla prova avanzata dagli avvocati degli imputati, non basta a lasciarsi alle spalle un episodio che in qualche modo condizionerà la sua vita per sempre.

Nove anni e tre mesi di reclusione ai tuoi aggressori.
«Ho saputo. Sinceramente mi aspettavo qualcosa in più anche se, realisticamente, quasi dieci anni non sono pochi. Ma il punto secondo me non è neanche questo».

Qual è?
«Possibile che dei ragazzini che provano ad ammazzare un altro ragazzino cercando di tagliargli la gola non abbiano un momento di pentimento? Come si può continuare a vivere con un peso così senza avvertire la necessità di dire “abbiamo sbagliato, non lo faremo mai più e siamo felici che Arturo sia vivo”. Ecco, questo è quello che mi colpisce maggiormente in tutta questa brutta storia».

Il mancato pentimento.
«Certo. Mi viene da pensare che l’unico loro rammarico sia invece quello di aver fallito nell’operazione. Volevano ammazzarmi senza pietà, sotto gli occhi di tutti, a pochi giorni da Natale, e non ce l’hanno fatta. Il loro atteggiamento è quello di chi ha perso un’occasione per entrare alla grande a far parte del mondo della criminalità organizzata». 

Te la sentiresti di perdonarli?
«Come potrei farlo. Il mio perdono non potrebbe mai essere unilaterale. Dovrebbero essere loro a fare il primo passo: in quel caso forse ci penserei. Sono vivo per miracolo e se mi tornano in mente le coltellate di quella sera, altro che perdono». 

Sei andato in tribunale ieri mattina?
«No, non intendo più cambiare i miei programmi e la mia vita per stare dietro a questa vicenda: ho già sofferto abbastanza insieme con tutta la mia famiglia. Ero con mamma, a casa, abbiamo aspettato lì il verdetto, devo dire anche con grande serenità». 

Quante volta ti torna in mente quel pomeriggio di dicembre in via Foria?
«Troppe. Dal punto di vista psicologico ho ancora qualche problema da risolvere anche se il mio stato d’animo è molto migliorato, sto facendo notevoli progressi e ne vado fiero». 

Dal punto di vista fisico?
«Bene, per fortuna va tutto bene. La voce è tornata e sono abbastanza in forma. Le ferite ancora aperte me le porto dentro ma sto cercando di far rimarginare anche quelle. Ce la farò».

Quanto vale l’affetto degli amici?
«Moltissimo. Lo devo anche a loro se sono uscito più o meno indenne da questa storia che all’inizio mi appariva un incubo del quale temevo che non mi sarei mai liberato. E poi grazie anche a mia madre che ha sempre tenuto alta l’attenzione su un episodio di violenza assurda trasformandolo in uno strumento di legalità nelle mani dei ragazzi come me».

Hai paura di uscire da solo?
«Non lo faccio volentieri, soprattutto di sera. Preferisco muovermi in compagnia. Se vogliamo dirla tutta sono un po’ pigro, a casa ci sto bene e dopo quello che mi è successo anche meglio».

Che cosa pensi quando attraversi quel pezzo di strada dove sei stato aggredito?
«Mamma mia, meno male che sono vivo».
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