Aggressioni ai prof, quel patto che è saltato

di ​Fabrizio Coscia
Giovedì 19 Aprile 2018, 22:30
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«Lei non ha capito nulla. Chi è che comanda? Si inginocchi!». Bisogna guardarlo il video dello studente di Lucca che minaccia il suo professore perché non vuole mettergli sei.
Bisogna guardarlo perché le immagini sono molto più eloquenti delle parole (benché anche a leggerle soltanto suonino di una violenza inaudita, inaccettabile). Quel che colpisce, infatti, è l’atteggiamento inerme del professore: rassegnato, totalmente in balìa dell’evento, perfino complice del suo aguzzino, lo si direbbe. Sono immagini sconcertanti, divenute subito virali in rete, perché dicono con una forza davvero straordinaria e - direi - simbolica la condizione di disagio della scuola italiana (e probabilmente non solo italiana).

Ieri è emerso un altro caso analogo (avvenuto un anno fa ma solo adesso oggetto di indagine giudiziaria), con un video che contiene altre minacce a una docente. Li chiamano casi di bullismo, ma attenzione a non sbagliare lettura. Qui il bullismo non c’entra niente. Qui siamo di fronte a una situazione generale e degenerata che coinvolge i ragazzi oggi e ha una causa eminentemente sociale, non psicopatologica come nel caso del bullismo. Il bullismo esiste da sempre (Robert Musil lo raccontò in modo magistrale nei «Turbamenti del giovane Törless», romanzo del 1906 dove si descrivono gli abusi psicologici fisici e sessuali commessi tra compagni di studi in un rigido ed esclusivo collegio militare austro-ungarico di inizio secolo), e soprattutto avviene tra pari adolescenti. Qui siamo di fronte invece a soprusi esercitati da giovani nei confronti di adulti e in un inedito ribaltamento dei ruoli di potere. Che cosa succede, allora? Credo che di fronte alla vergogna di questo video, e alla gravissima sottovalutazione che il docente stesso ha espresso sull’accaduto (come di fronte al «perdono» dell’insegnante accoltellata dal suo alunno, qualche mese fa) dovremmo tutti fare un severo esame di coscienza: la scuola, lo ripeto spesso, dimostra di aver smarrito del tutto il suo ruolo di formazione, di aver abdicato alla sua funzione educatrice, persa in quella che il compianto Sandro Onofri definiva, nel suo bellissimo «Registro di classe», «un inseguimento affannoso della modernità», in una celebrazione acritica di valori «la cui validità dentro la scuola è invece tutta da dimostrare»: i valori «dell’oggettività», «dell’omogeneità», «della standardizzazione», chimere didattiche che hanno avuto conseguenze educative perniciosissime. Invece di insegnare la ricchezza della differenza, della libertà espressiva, del rispetto della persona umana, invece di proporsi come alternativa a un destino che sembra unicamente affidato, nella civiltà tecnologica avanzata, all’antica legge darwiniana della selezione naturale , la scuola ha preferito mettersi in competizione con le allettanti promesse di mercato della realtà esterna: dirigenti scolastici troppo impegnati a realizzare Pon, progetti e progettini e poco attenti alla didattica, al suo valore educativo, hanno lasciato soli docenti sempre più demotivati, sempre più mal pagati, sempre più annoiati, e anche alunni considerati ormai come «clienti» aziendali (basti pensare allo scandaloso sistema dell’alternanza scuola-lavoro) piuttosto che come ragazzi da formare a una cittadinanza critica e consapevole. Dove recuperare, allora, quell’autorità necessaria se la società stessa ha condannato il docente a un destino da «sfigato»? Perché mai i ragazzi dovrebbero prendere a modello, ascoltare, seguire qualcuno che li invita a studiare e a rispettare il sapere, se lo studio e il sapere rendono così poco in termini economici, laddove tutto al di fuori della scuola ammonisce che il dio Denaro è l’unico totem da adorare? «Lei non ha capito nulla. Chi è che comanda?».

Già, chi è che comanda? Qualcosa si è inceppato, qualcosa è andato storto se il docente, pur di accattivarsi la simpatia, l’attenzione del suo alunno, finisce per chattare con lui su Whatsapp o per accettare l’amicizia su Facebook, azzerando di fatto un rapporto che dovrebbe restare necessariamente asimmetrico, ma non per esercitare un potere bensì per trasmettere un sapere. Quel sapere che i ragazzi sono convinti, oggi, non serva a nulla, poiché tutto è a portata di display. E che questa asimmetria perduta abbia a che fare strettamente con la Rete lo dimostra il fatto che le minacce ai docenti vengono compiute per essere riprese e messe in internet in tempo reale e condivise con il maggior numero di persone possibili. Tutto va consumato orizzontalmente e indiscriminatamente, e tutto va vissuto online senza bisogno della mediazione di nessun soggetto detentore di una qualche «sapienza». Si chiama disintermediazione, ed è un fenomeno, attivato proprio dalle grandi piattaforme web, che ormai ha convolto e investito molti campi: il giornalismo, la politica e, naturalmente, la scuola. Ecco perché se continuiamo a confondere questi episodi con il bullismo rischiamo di non capire nulla di ciò che sta succedendo. E dunque, che fare? Confesso che pure nel buio di questi tempi non smetto di credere in una zona franca che possa permettere di trovare, tra docenti e alunni, una lingua comune. Ma senza ammiccamenti, senza permissivismi, senza facili perdoni. Con rigore, con fermezza, con autorevolezza. È di questo che hanno bisogno i ragazzi. È questo il campo di coltura dove si può provare a ricominciare la semina. Perché non c’è da capire «chi comanda», ma solo da reinventare una «paidea» che riscopra l’insegnamento come formazione umana complessiva, e l’insegnante come il traghettatore esperto, carismatico, di un processo continuo attraverso cui l’individuo possa realizzarsi pienamente e crescere in armonia con il mondo.
 
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