Addio Racinaro, il filosofo
che investigava il mondo di tutti

di Aldo Masullo
Giovedì 14 Giugno 2018, 22:51
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Quella di Roberto Racinaro - filosofo ed ex rettore dell’università di Salerno scomparso ieri a 70 anni - è stata una vita piena, doppiamente spezzata. È stata una vita piena, perché si è nutrita del mondo e col mondo ha parlato. Roberto infatti è stato un investigatore rigoroso, impegnato nel difficile compito di «capire il proprio tempo in forma di pensieri», come avrebbe detto Hegel. Era il suo autore più amato, e ha provato la gioia d’incrociare i suoi passi mentali con quello di altri non meno appassionati studiosi nel fervore della cultura militante. Ma soprattutto egli ha provato ogni giorno nelle aule universitarie l’esaltante emozione di accendere con il proprio entusiasmo intellettuale quello dei giovani. Non posso dimenticare come nel vivo delle discussioni culturali, dentro o fuori dell’università, il volto del mite Roberto si accendeva di sorridente forza ed era allora il maestro che si esprimeva in tutto il suo vigore intellettuale, sempre venato e come addolcito da una bonaria ironia, tutta genuinamente filosofica.
Questa pienezza di vita è stata spezzata per la prima e decisiva volta dalla sua feroce e incredibile vicenda giudiziaria, troppo nota per essere qui rievocata nei suoi dettagli, ma altrettanto scandalosa di quanto, per esempio, lo fu a Napoli quella di Enzo Tortora. Sulla vicenda di Roberto, Rettore dell’Università di Salerno, portato in manette in carcere, liberato dopo 24 giorni ma sottoposto al supplizio di un processo durato nei suoi vari gradi ben 16 anni, prima di concludersi con la sentenza di piena assoluzione pronunciata dalla Corte di cassazione, ora, dinanzi al tristissimo evento della sua morte, non possono non farsi almeno due riflessioni.
La prima riflessione non può non concentrarsi sulla figura morale di un uomo come Roberto che, esposto innocente alla vergogna mediatica e alla tortura processuale, rispose con la dignità che la sua educazione civile e la sua coscienza di studioso comportavano. Non si deve dimenticare che egli, rieletto Rettore mentre era in carcere, subito si dimise per mantenere la sua università al riparo dalla tempesta mediatica. Né va dimenticato che durante il tormentoso percorso processuale, egli non esitò a rinunciare alla prescrizione, giocando così apertamente la sua innocenza contro la pretesa accusatoria. Roberto insomma, contro l’attacco della macchina giudiziaria e il suo terribile potere di togliere di punto in bianco la libertà a un cittadino, mette in campo quel che chiamerei il «carattere socratico», la forza di resistere non maledicendo il legittimo ma non sempre giusto potere giudiziario, bensì mettendone ragionatamente in luce i limiti e i vizi. Di questa razionale resistenza sono tra l’altro testimonianza due sapidi libretti, dai titoli eloquentissimi: «Colonne infami» e «La giustizia virtuosa. Manualetto del detenuto dilettante»!
La seconda riflessione è che Roberto è stato un esemplare «martire» (nel senso letterale di «testimone») della giustizia penale ingiusta. Contro la carcerazione ingiusta le leggi oggi prevedono il risarcimento monetario da parte dello Stato. Paradossalmente a giudicare del risarcimento è lo stesso potere giudiziario (che per esempio proprio a Roberto lo ha negato). In ogni modo l’idea della risarcibilità a ben considerare è aberrante. Di tutto si può essere risarciti, monetariamente o in altro modo. Della carcerazione e delle tribolazioni processuali no. La libertà è la vita stessa della persona, vissuta giorno dopo giorno. Essa è le relazioni che s’instaurano o si costituiscono, l’azione in cui via via ci realizziamo, le opere in cui esprimiamo il nostro essere, la cura degli affetti che altrimenti come ogni cosa lasciati a se stessi appassiscono. In breve la libertà è il tempo stesso della nostra vita, e il tempo è irreversibile, non può rifarsi il cammino che non si è fatto. Il tempo perduto è perduto per sempre. La libertà tolta è la vita amputata, irrevocabilmente. L’ingiusta negazione di libertà, in quanto annulla una parte del tempo della vita, è una condanna a morte parziale. Altrettanto irreparabili sono le molteplici mortificazioni che si patiscono per un immeritato processo.
La vita piena di Roberto non è stata soltanto spezzata crudelmente dall’esterno, dal mal funzionamento di qualche istituzione, ma pure, io credo, dall’interno, come effetto dello stesso impegnativo sforzo di «capire il proprio tempo in forma di pensieri».
Come sempre accade nelle forti intelligenze critiche, ogni evento non è mai angustamente personale ma assurge a politico. Così la pienezza della sua vita, per quanto spezzata, ma piena della domanda che questo trauma porta con sé, non si arrende, non rinuncia al suo compito di analisi critica. Roberto si sente costretto a riflettere sul rapporto tra giustizia e politica nel quadro di un mondo umano in così rapida e profonda trasformazione, da rendersi poco riconoscibile alle generazioni declinanti. Nell’ampia e complessa trama dei cambiamenti un importante filo appare esemplarmente equivoco e disorientante, il rapporto tra politica e giustizia. Nel più incisivo lavoro recente, pur non ancora esaurita la sua drammatica vicenda, Roberto non rinuncia a interrogarsi sul mondo nel tempo della globalizzazione, con il crescente prevalere della tecnica sulla politica, pur sullo sfondo del permanente trovarci sospesi tra la guerra e la pace, tra la mediazione e il terrore, cioè ancora nel gioco demoniaco della politica.
Pensando a Roberto, pur molto più giovane di me e di diverso anche se non lontano orientamento intellettuale, provo una solidale tristezza per la pienezza della sua vita, spezzata prima dalla crudeltà giudiziaria e poi dalla difficile riconoscibilità di un mondo in cui l’invadenza del calcolo riduce pericolosamente lo spazio del pensiero. 
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