Tariffe troppo basse, una rete colabrodo
e 5 miliardi che nessuno vuole spendere

Tariffe troppo basse, una rete colabrodo e 5 miliardi che nessuno vuole spendere
di Francesco Pacifico
Domenica 23 Luglio 2017, 23:55
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l parallelo è empirico, ma contiene in sé tutto il dramma del sistema idrico italiano. Tra l’ottobre e il marzo scorsi, nel periodo deputato a rimpinguare le falde acquifere, le piogge sono crollate del 40 per cento. E, ogni giorno, quasi il 40 per cento dell’acqua trasportata sulla nostra rete si perde, si spreca, per colpa di tubature vecchie e bucate. Infatti ogni conduttura ha una vita media di dieci, mentre quelle nei grandi centri, quando va bene, ne hanno almeno quaranta. Nella grande emergenza che sta colpendo l’Italia e costringendo città come Roma al razionamento si leggono certamente gli effetti della più grande siccità dell’era contemporanea. Ma si paga soprattutto l’assenza di manutenzione sull’infrastruttura e di programmazione sul settore, con la politica - come dimostra il referendum del 2011 - che non riesce andare oltre due mantra: l’acqua deve essere pubblica e, se non bastasse, deve essere pagata con un prezzo politico. Consumi Tutto questo avviene in un’Italia dove i suoi abitanti consumano molta acqua (in media 241 litri, che a Napoli calano a 157), ma non brillano certo per un uso virtuoso. Stando a un’indagine condotta dal portale Inabottle.it un terzo non sa che cosa sia il risparmio: non chiude l’acqua quando si lava i denti o si fa la barba (sprecando tra gli 8 e i 35 litri), fa lavatrici e lavastoviglie a mezzo carico, preferisce il bagno alla doccia e l’automobile se la lava in giardino con la canna per innaffiare i fiori.


Tariffe Secondo gli esperti questi atteggiamenti sono legati alle bassissime tariffe: in Italia, hanno calcolato gli analisti dell’International Statistics For Water Services, l’acqua costa un terzo di quanto si paga nel resto d’Europa e tanto basta per non responsabilizzare a sufficienza gli utenti. Per 180 metri cubi a Monaco di Baviera si pagano quasi cinque euro, a Vienna, Londra, Barcellona si superano abbondantemente i tre, mentre a Roma non si arriva a due e a Napoli e Milano siamo sopra quota un euro. Per la cronaca la più cara è Torino, con 1,95 euro per ogni metro cubo. Ma soltanto apparentemente questo è un conforto per gli abitanti di un Paese, senza materie prime, che paga l’elettricità il 10 per cento e il gas il 19 per cento in più rispetto agli altri consumatori europei. Dispersione Spiega il dirigente di un’ex municipalizzata: «Non è che nazioni meno ricche di noi come la Spagna o il Portogallo spendono di più per l’acqua perché sono stupidi o masochisti. Lo fanno perché soltanto con una giusta remunerazione si possono garantire un servizio efficiente e soprattutto la manutenzione della rete». Da noi gli acquedotti, compresi di allacciamenti, coprono una distanza di quasi 500mila chilometri. Unitalia ha calcolato che in media il 39 per cento di questi tubi sono bucati. Le cose vanno meglio al Nord dove questo numero cala al 26 per cento, per salire al centro al 46 e al 45 al Sud (a Salerno, per esempio, si supera il 55 cento). Questo perché la rete è vecchia. L’Autorità per l’energia, il gas e l’acqua ha calcolato che il 60 per cento dei tubi sono stati posati 30 anni fa. E sono i più nuovi. Il 25 per cento ha più di mezzo secolo, mentre la media nelle grandi città supera i quarant’anni. Il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni km di rete: a questo ritmo occorrerebbero oltre 250 anni per rifare l’infrastrutture.


Investimenti Ma non è soltanto una questione di tempo. Quello che mancano sono gli investimenti. Ed è difficile trovarli se, dopo il referendum del 2011, è stata vietato di inserire una remunerazione nelle tariffe con l’obiettivo di rendere il settore poco appetibile e tenere lontano i privati. Un principio neppure scalfito da una recente sentenza del Consiglio di Stato, che ha sostenuto la necessità di calcolare il peso degli investimenti. Sempre l’autorità ha stabilito che, per chiudere i buchi nella rete, servirebbero almeno cinque miliardi da qui al prossimo quinquennio. Il governo Gentiloni invece ha annunciato stanziamenti per 4,5 miliardi di euro complessivi che riguardano sia la riduzione delle perdite della rete idrica sia la riqualificazione dei costosissimi impianti di depurazione. Anche perché circa l’11 per cento dei cittadini non è ancora raggiunto dal servizio di depurazione. Una situazione che è costata all’Italia tante procedure d’infrazione e multe salatissime a causa delle sanzioni europee comminate all’Italia colpevole di ritardi nell’applicazione delle regole sul trattamento delle acque. In pratica, spiegano gli esperti del settore e nonostante una lieve inversione di tendenza negli ultimi quattro anni, quando va bene si mette mano al portafogli per non meno di mezzo miliardi all’anno nel tentativo di tappare le falle. Nel “Blue Book”, la bibbia del settore curata da Unitalia, si scopre che la tariffa copre soltanto il 22,3 per cento degli impegni nel ricco Nordest e crolla al 9,8 nel più povero e arretrato Mezzogiorno. Le aziende Per capire i ritardi è sufficiente dire che l’investimento procapite è intorno a 34 euro. Nel resto d’Europa il minimo è 80 euro fino ad arrivare a 132 della Danimarca. «Senza la certezza di poter recuperare quanto serve per le opere con la tariffa», racconta un manager del settore, «è impossibile per esempio andare in banca e chiedere un prestito. Gli istituti stranieri, come quelli francesi, stanno via via sparendo. Ma non ci sono spazi neppure per affidarsi a strumenti finanziari come gli Hydrobond o utilizzare le anticipazioni del piano Juncker. Fortunatamente l’Autorità ci riconosce gli onori finanziari intorno al 8,7 per cento per comprare il denaro e che in parte compensano la fine della remunerazione, che era di poco superiore al 7 per cento, eliminata dal referendum. Ma il problema vero è come sono calcolate e composte le tariffe».


In Italia il governo scrive le linee guida, l’Autorità indica i meccanismi e poi sta a gli Ato, agli ambiti territoriali di gestione nominati dai comuni, riconoscono ai gestori il quantum per le opere. «Perché le tariffe sono calcolate in base al principio del “full cost recovery”. alle voci di spesa: il personale, l’elettricità, il rifornimento di acqua. Se un Ato però stabilisce che il nostro computo non è esatto, non ci garantisce il ristoro totale di quanto impegnato. Nessuno lo dice, ma accanto ai cinque miliardi di euro che sono necessari per sistemare la rete, prima o poi qualcuno dovrà trovarne almeno un paio per coprire tutti i debiti che stanno sommando le aziende. O credete che il settore possa reggere con un fatturato complessivo di appena 7,6 miliardi di euro?». In quest’ottica sono a rischio anche i quasi 100 milioni che i principali enti gestori della Campania (come la Ge.Se.Sa sull’ato Calore-Irpino, l’ABC di Napoli, la Evi di Ischia, la Gori nel Vesuviano o la Salerno Sistemi sul versante del Sele) hanno previsto nell’ultimo triennio. Frammentazione A peggiorare la situazione la parcellizzazione nelle competenze e nella gestione dell’acqua.


Sul primo versante il governo può poco - dà solo le linee guida sul computo delle tariffe o può premere per le aggregazioni delle aziene - perché tutto ricade sui Comuni.
Che non hanno alcun interesse ad aumentare il costo dell’acqua. La regione Campania ha provato a rompere questa situazione creando l’Ente idrico unico, ma il processo è lungo visto che la gestione integrata del servizio idrico e fognario per territori sovracomunali è realizzata solo in 193 comuni. Cioè poco più di un terzo del totale. Ancora più frammentata la governance del servizio. In Italia gli Ato sono scesi a 64, ma sovraintendono oltre 700 gestori, a loro volta suddivisi in 5 tipologie di soggetti giuridici attraverso 72 affidamenti, che dopo il referendum vanno fatti soltanto in house. Il tutto a scapito della qualità e della buona gestione.
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