Artigianato «geloso» a Napoli? I giovani reagiscono in coworking

Artigianato «geloso» a Napoli? I giovani reagiscono in coworking
di Francesca Cicatelli
Mercoledì 5 Aprile 2017, 22:33 - Ultimo agg. 6 Aprile, 00:16
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L'artigianato a Napoli soffre di gelosia e i giovani reagiscono in coworking. È quanto da una ricerca del Dipartimento di Scienze Sociali del’Università Federico II di Napoli che hanno inaugurato un'esposizione multimediale sul tema intitolata "Fatti ad arte". Foto, video e pannelli descrittivi racconteranno i risultati della ricerca etnografica condotta da gennaio a ottobre 2016 dall'università nell’ambito del progetto SNECS-Databenc (Social Network delle Entità dei Centri Storici) che, sulla base delle analisi svolte, intende sperimentare nuove strategie di promozione e salvaguardia del patrimonio culturale della Campania, con particolare attenzione ai centri storici anche per raccontare e valorizzare il mestiere di artigiano ed evidenziare i processi innovativi nei tre contesti analizzati (liutai, orafi e presepai).

«Difficile imparare un mestiere se non si proviene da una famiglia - denunciano le nuove leve dell'artigianato a Napoli - L'unica è organizzarsi in coworking. Stiamo cambiando il modo di fare artigianato". Ed è il caso ad esempio, del laboratorio Anema e Corde vicino Port'Alba oppure del Consorzio Antico Borgo Orefici, scuola-laboratorio che porta avanti il konw how e il senso di aggregazione, dove i fratelli Michele e Salvatore, provano a scardinare il sistema, diventando incubatore per le nuove leve dell'artigianato che non riescono ad "ereditare il mestiere e l'arte di famiglia».  Gelosie infatti si manifestano anche nel mondo degli orafi: le famiglie del Borgo Orefici sono monadi restie a trasmettere il mestiere.
 

Dallo studio emerge che nella società contemporanea, l’istruzione si standardizza sempre più (punteggi ai test, crediti formativi, classifiche delle scuole) mentre sono altre le sfere sociali, come quelle del consumo, del tempo libero, o della spettacolarizzazione, in cui si allargano esponenzialmente le occasioni di sviluppo di competenze, emotive, relazionali, in una parola: trasversali. Le formazioni che “interessano” le nuove generazioni si dis-locano verso altri spazi reticolari e inter - mediali  di socializzazioni e di socialità. Qui si producono gli immaginari culturali e si sviluppano competenze parallele, se non alternative, rispetto a quelle richieste da scuola e Università.
Così, una sfida comune per le sociologie della cultura e dell’educazione diviene quella di ricercare, indagare, svelare come i “fare culture” e i “fare educazioni” si intreccino mediante un labirinto di possibilità che vanno dalle Istituzioni e dalla Governance alle pratiche delle “eterotopie culturali” della società globalizzata. E dall’altra parte la sfida per la scuola e per le Università è quella di rimettere insieme conoscenza ed esperienza, di rivitalizzare il sapere restituendogli la capacità e la vocazione di cambiare la vita coloro che lo abitano. Sempre alle Istituzioni scolastiche spetta il compito di fornire ai giovani e alle giovani gli strumenti per padroneggiare un uso adeguato delle nuove tecnologie che al contempo possono offrire molto, ma anche togliere se mal utilizzate.
  
Lo sottolineano anche gli artefici della ricerca.  Raffaele Savonardo docente di “Teorie e Tecniche della Comunicazione” e di “Comunicazione e culture giovanili” del Dipartimento di Scienze Sociali sottolinea come  l'artigianato «sia rilevante  anche per lo sviluppo del turismo e per segnalare quegli aspetti di innovazione che nella valorizzazione della tradizione diventano centrali  nell’arte di questi artigiani». Barbara Saracino, coordinatrice della ricerca mette in luce come lo studio non sia «un’operazione nostalgia», infatti gli antichi  mestieri sono assolutamente attuali e hanno un mercato un ben preciso e anche molto redditizio. Producono degli oggetti unici, rivolgendosi spesso a un mercato di nicchia. L’artigianato perciò non è destinato a morire. Questi non sono mestieri che stanno morendo, anzi sono mestieri assolutamente contemporanei:  gli artigiani del centro storico, forse a loro insaputa, sono dei veri e propri “makers” protagonisti indiscussi di un movimento, quello degli artigiani digitali che sta cambiando il mondo del lavoro, lontani dai percorsi ufficiali. Hanno dei propri codici, linguaggi e anche metodi di trasmissione delle tecniche e dei saperi ma è un settore vivo e in evoluzione.

Emanuela Vernetti, giornalista  e borsista di ricerca nel progetto “Snecs-Databenc” spiega come i video in mostra rispondono ad una logica etnografica, quella cioè di restituire allo spettatore le impressioni e le immagini reali che abbiamo percepito entrando in quei laboratori  dove il tempo, a un primo sguardo, sembra essersi fermato. Gli attrezzi e i gesti sono quelli tramandati di generazione in generazione e tutto può sembrare una reiterazione immobile di ciò che fu, in attesa di estinzione. Invece se si ferma lo sguardo in profondità  si comprende come tutto sia in movimento, come l’innovazione si integri con una tradizione talmente radicata  che quasi riesce difficile distinguerle. Invece vederle entrambe, invece, è importante: perché non si perdano gli antichi saperi e non si ignorino nemmeno quelle piccole rivoluzioni quotidiane. Mirella Paolillo, dottoranda di ricerca in “Scienze sociali e statistiche” e borsista di ricerca nel progetto “Snecs-Databenc” racconta che: «Fotografare gli artigiani a lavoro non è stato facile: nessuna posa è artefatta, tutto è assolutamente naturale. Con le foto, abbiamo cercato di fermare gli attimi in cui gli artigiani sono a lavoro. Ci siamo concentrate sulle mani in particolare non solo perché l’artigianato è ovviamente un lavoro manuale ma perché ci siamo resi conto che per loro le mani rappresentano dei veri e propri strumenti. E’ come se fossero delle estensioni dei loro pensieri così come gli strumenti che utilizzano sono come prolungamenti delle loro dita. In ogni manufatto c’è un’idea precisa, il senso che loro danno all’arte  il che li rende artisti e non artigiani».
 
 
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