Amos' World al Madre: anche Scampia nell'ultimo episodio della trilogia di Cécile B. Evans

Amos' World al Madre: anche Scampia nell'ultimo episodio della trilogia di Cécile B. Evans
di Paola Marano
Sabato 19 Gennaio 2019, 18:00
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L’architettura brutalista come allegoria dei network che governano le vite delle società contemporanee. Le grandi utopistiche unità di abitazioni realizzate nel Novecento riviste attraverso immagini e sculture grazie alle suggestioni di chi ci vive, come i bambini delle Vele di Scampia. E proprio Scampia e l’immaginazione dei suoi giovani abitanti sono alla base dell’ultimo episodio della trilogia  Amos’ World – Amos' World (Episode Three) – dell’artista belga-americana Cécile B. Evans, presentato questa mattina in anteprima italiana al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina della Regione Campania.
 



«Una trilogia concepita come una fiction tv, in cui si parla del nostro Novecento, il secolo delle grandi utopie, dei progetti per far vivere meglio le persone, come a Scampia – ha spiegato il direttore del museo, Andrea Viliani - dove nel luglio dell’anno scorso l’artista ha tenuto un workshop con i bambini che vivono in quegli edifici, che hanno immaginato con lei come vivere in una casa, in una comunità, senza che qualcuno debba deciderlo per loro».
 
Nell’ambito degli studi condotti per la realizzazione del progetto Amos’ World, infatti, il museo Madre ha presentato nell'estate del 2018 un laboratorio riservato a un gruppo di bambini, tra i quattro e i dodici anni, residenti nelle Vele. Durante il laboratorio – che ha costituito la premessa metodologica della mostra ed è stato prodotto dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee nell’ambito del progetto Madre per il Sociale – sono state condivise fra l'artista e i bambini partecipanti alcune riflessioni su aspetti fondamentali del progetto Amos’ World, in particolare sulla possibilità che esista un'alternativa partecipata alla semplice demolizione degli edifici in cui abitano, e dunque un potenziale antidoto alla loro deriva distopica. Il laboratorio non si è focalizzato sulle architetture o sul destino delle unità abitative, ma sulla loro matrice di allegorie di possibili modalità di convivenza e di connessione: molti dei partecipanti hanno descritto chiaramente una vibrante, pervasiva rete di relazioni, fondata su rapporti di amicizia ma anche su dinamiche di potere. L’artista, con il sostegno del museo, ha potuto girare all’interno delle Vele alcune scene che compaiono in Episode Three, riflessioni sulle diverse possibilità di una costante ricostruzione, non tanto architettonica ma, prima di tutto, emozionale e comunitaria.
 
“Il workshop, che si è svolto nell’ambito delle attività del Madre per il sociale, in cui il museo va fuori da se stesso e lavora nella comunità, sono stati la base –  ha continuato Viliani - quei giorni, quei disegni, le danze che i bambini hanno fatto tra le Vele e il Madre sono le fondamenta di questo lavoro che esponiamo».  Un esempio virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato, sostenuto , oltre che dal museo Madre, da Nicoletta Fiorucci, fondatrice di Fiorucci Art Trust. 
 
Tutte le opere componenti la trilogia Amos’ World (in cui i singoli video sono inseriti o accostati a componenti allestitive di matrice architettonica ispirate dalle immagini filmiche) diventano un’allegoria delle relazioni umane all'epoca della comunicazione digitale e dei network contemporanei, in cui le dinamiche del potere individuale sono ri-definite e de-costruite attraverso la pervasiva influenza esercitata dalle infrastrutture tecnologiche che le governano.

In Amos’ World il protagonista Amos, l’architetto che ha creato il complesso residenziale, rappresenta lo stereotipo dell'uomo bianco occidentale, un «genio tormentato» che contraddice la sua vera natura tortuosa, velleitaria e un po' patetica, confondendo le sue ambizioni intellettuali con il loro reale impatto sociale. 
In Amos’ World (Episode Three) si racconta il momento in cui il mondo dell'architetto Amos viene demolito, anche se non completamente distrutto, il che crea un’inedita condizione di disponibilità verso nuove opportunità. Evocando questa moltitudine di possibilità ancora da cogliere, l’installazione si presenta come uno spazio aperto, costituito nella grande sala al piano terra del museo Madre da una proiezione video e dieci sedute. Queste ultime, intitolate Erratics, sono composte da altrettanti cubi scultorei su cui sedersi per assistere, una persona alla volta e tutti insieme, alla proiezione, suggerendo la compresenza in sala di una visione simultaneamente individuale e collettiva.
 

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