I ricordi di Patrizio Oliva:
«A otto anni sul ring
scansando i topi»

I ricordi di Patrizio Oliva: «A otto anni sul ring scansando i topi»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 10 Novembre 2018, 09:11 - Ultimo agg. 17:59
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Sette fratelli, uno di loro morto a soli 15 anni, pochi soldi, un papà violento che sfoga dolori e frustrazioni sulla mamma, paura, rabbia, tensioni e tanta voglia di scappare via. Non è stata una infanzia felice, e nemmeno facile, quella di Patrizio Oliva, uno dei più grandi campioni che la storia del pugilato italiano possa vantare, 160 incontri in totale, 155 vittorie e 5 sconfitte, tra i pochi ad aver conquistato l’oro olimpico (Mosca 1980) e il titolo mondiale (1986). A salvarlo è stata proprio la boxe alla quale il piccolo Patrizio si appassiona seguendo il fratello Mario (campione italiano nei dilettanti) e guardando gli incontri del leggendario Cassius Clay, Muhammad Ali, suo vero punto di riferimento.
 
 

Quanti anni aveva quando è salito sul ring per la prima volta?
«Otto anni. Mi bastò infilarmi i guantoni per capire che quella sarebbe stata la mia strada. Mi mettevo davanti allo specchio di casa e mi autoproclamavo campione olimpico e campione del mondo. Poi però ce l’ho fatta sul serio».

Dove si allenava?
«Nella palestra Fulgor, in via Toledo, c’era il maestro Geppino Silvestri, vera e propria istituzione per il pugilato campano. Era uno scantinato buio e infestato dai topi, mi ricordo che prima di chiudere la porta dovevo mettere il veleno agli angoli della sala».

Mai mollare.
«L’ho imparato lì insieme ai primi rudimenti di uno sport duro e leale, dove l’intelligenza vale più della forza e il rispetto è la prima vera regola. Ricordo che non avevo neanche i soldi per comprarmi il biglietto dell’autobus, mi facevo quindici chilometri a piedi tutti i giorni, andavo e venivo da via Stadera, sia in estate che in inverno non faceva differenza: allenarmi era l’unico obiettivo che avevo. Sapevo che avrei vinto».

Come mai così convinto?
«In realtà era una promessa che volevo mantenere con mio fratello Ciro, si ammalò giovanissimo, morì a 15 anni, un male incurabile ce lo portò via strappandolo anche a un probabile futuro da campione nel mondo del calcio. Era lui a darmi la forza e il coraggio di andare avanti nonostante mille difficoltà».

Problemi familiari?
«Enormi. Fame nera e violenza, tanti figli e nessuno che se ne occupasse anche se mia madre si faceva in quattro per cercare di farci sentire il suo affetto. Non esistevano le feste, neanche il Natale, e non siamo mai andati in vacanza. Sono cresciuto a Poggioreale, vivevo vicino al cimitero e vicino al carcere, quelle erano le due strade che avrei potuto prendere se avessi ceduto alla tentazione dei soldi facili».

La criminalità.
«Ho trasformato la mia vita in una sfida, ho fatto risorgere mio fratello Ciro nei guantoni insieme con tutta la nostra famiglia a cui finalmente riuscii a restituire un po’ di dignità».

E anche un po’ di soldi.
«È chiaro che cominciarono ad arrivare ma vi assicuro che, pur venendo da una famiglia dove a volte non si riusciva neanche a fare la spesa, non ho mai combattuto per danaro». 

Quali erano le sue motivazioni?
«Onorare la morte di Ciro e sostenere i miei genitori. Solo così sono riuscito a superare fatica e ostacoli, sia nello sport che nella vita. La fatica l’ho cominciata a sentire proprio quando ho dovuto combattere per soldi. In quei momenti quasi mi passava la voglia di salire sul ring. Questo per farvi capire quanto siano importanti le motivazioni».

Motivazioni, dunque, e grande determinazione.
«Quella poi è stata la mia vera salvezza. Quando vado nelle scuole dico sempre ai ragazzi che non sono la fortuna o le raccomandazioni a farci andare avanti. Dobbiamo puntare sulle nostre capacità, seguire i sogni senza mai farci condizionare dai fattori esterni che potrebbero influire negativamente sulle nostre vite. E poi: mantenere sempre le promesse».

Lei quella con suo fratello l’ha mantenuta.
«Certo. Sono stato veramente soddisfatto solo quando sono riuscito a compiere il passo olimpico».

A Mosca.
«Era il 1980, dopo aver battuto quattro avversari, mi giocai la finale contro il kazako Konakbayev, che nel 1979 mi aveva sconfitto nella finale europea valevole per il titolo continentale dei leggeri dei dilettanti con un verdetto che aveva lasciato scontenti un po’ tutti».

Si è tolto la sua soddisfazione.
«Grazie alla mia filosofia: l’intelligenza può e deve avere la meglio sulla rabbia e la potenza, solo in questo modo si riesce a domare anche l’avversario più temibile».

A che età il primo incontro?
«Avevo quattordici anni. Ero leggero, ma la magrezza mi rendeva agile, è un vantaggio tra le corde. Il pugilato non è rissa, mi dissero: “è una scherma”. Schiva, rientra e colpisci. Schiva, rientra e colpisci. Classe pura».

Così iniziò a distinguersi.
«Rapidamente cominciai a scalare le classifiche nazionali. Arrivai in finale nel campionato novizi, persi ai punti ma imparai la lezione. A diciassette anni ero campione italiano dilettanti, a diciotto nazionale in Grecia. Rovesciai a mio favore l’handicap del fisico esile. E sognavo le Olimpiadi insieme con la mia famiglia».

La famiglia. Che ricordi ha di suo padre?
«È sempre stato un violento, sfogava la sua rabbia su mia madre. Poi iniziò anche a bere e allora fu un disastro. Ricordo ancora le urla e i litigi con lei. Un incubo. Però in parte lo giustifico».

Giustifica il fatto che suo padre picchiasse sua madre?
«Quello no, ci mancherebbe. Però va anche detto che papà, da bambino, aveva vissuto una vita violenta anche lui. Suo padre fu ammazzato per questioni legate a tradimenti familiari mentre lo teneva in braccio, poi finì in orfanotrofio dove visse, immaginate in quali condizioni, tutto il periodo della guerra. Con la morte di mio fratello cominciò a ubriacarsi e diventò violento. Fu grazie alla gioia delle mie vittorie che ritornò ad essere il padre più buono che un figlio si augura di avere».

Da figlio a padre.
«Ring e guantoni? Non servono a niente. La famiglia è la mia vera forza. Mia moglie Nilia, stiamo insieme da 35 anni, e i mie quattro figli, Ciro, Alessandra, Marzia e Martina, sono tutto quel che ho».

Ma perché lo chiamavano «sparviero»?
«Quando la preda commette un errore lo sparviero lo punisce. Facevo anche io così con l’avversario: ero un rapace».
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