I ricordi di Antonio Polito:
«Dai salmi al libretto di Mao,
così ho scoperto la politica»

I ricordi di Antonio Polito: «Dai salmi al libretto di Mao, così ho scoperto la politica»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 20 Ottobre 2018, 18:00 - Ultimo agg. 12 Gennaio, 20:38
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Una famiglia piccolo borghese, la sua. Papà impiegato statale, prima negli uffici della Marina militare e poi nell'antica corderia di Castellammare, mamma casalinga e un fratellino: Francesco, nato sette anni dopo di lui. Innata passione per la politica, e grande abilità nella lettura dei salmi grazie agli anni passati a fare il chierichetto accanto al parroco. Esercizio che, con suo sommo scuorno, gli costò pubbliche letture in alcuni circoli di Castellammare, che Antonio Polito frequentò da giovanissimo. Appena quattordicenne, infatti, quello che sarebbe poi diventato giornalista e politico, simpatizzò, sebbene per un breve periodo, con Servire il popolo: formazione nata nel 1968, che si candidava a autentica interprete del maoismo. 
 
 

A 14 anni già militava? 
«Per la verità, anche prima, ma non trovavo un partito. Ci provai con i socialisti, però risposero che non potevano accettarmi perché dovevo aspettare il congresso, che avrebbe deciso il numero di tessere in quota alle varie correnti. Francamente, pensavo di iscrivermi a un partito, non a una corrente, così lasciai perdere».

E finì nelle file dei maoisti.
«Mi facevano declamare interi brani di Enver Hoxha e Mao Tse-Tung. Capii ben presto che dovevo darmela a gambe, ma non prima di aver deciso di entrare nel Pci, che allora mi sembrava la forma migliore per combattere un regime che mi appariva antiquato, superato».

Da Mao Tse-Tung a Giorgio Napolitano, insomma.
«A proposito di Napolitano, c'è un episodio che non dimentico».

Quale?
«Avevo poco più di 15 anni. Un pomeriggio venne a farci visita in sezione, per partecipare a un dibattito. Presi la parola, come tanti altri compagni, e quando toccò a lui per le conclusioni, mi citò: Come ha detto il giovane Polito, anche io penso che.... Un passaggio che mi fece guadagnare la considerazione dei vertici. Ne andai fiero per mesi». 

I suoi genitori cosa ne pensavano di questa accanita militanza adolescenziale?
«Devo ammettere che sono sempre stato sprezzantemente indipendente, e anche da ragazzino non ho mai lasciato interferire la famiglia nelle scelte della mia vita. In ogni caso: non erano d'accordo».

Forse perché la politica le sottraeva tempo allo studio?
«Mai avuto problemi a scuola. Frequentavo, con buoni risultati, il liceo classico Plinio Seniore di Castellammare - grande scuola, rigorosa e selettiva. La stessa di Luigi Vicinanza e Vittorio Ragone; con Vittorio eravamo anche nella stessa classe. Tutti e tre insieme abbiamo mosso i primi passi nel mondo del giornalismo. Bello quel periodo: ricordo ancora il professore Pasquale Lamanna, almeno due generazioni hanno studiato sulla sua Storia della letteratura italiana, compreso il sottoscritto».

Primo della classe?
«Non mi è mai piaciuto vestire l'abito del secchione, quello che indossa il primo della classe. Però il secondo, il terzo, talvolta il quarto, sì. Insomma, me la cavavo bene». 

Faceva politica anche a scuola?
«Per quello che si poteva. Non eravamo all'università e non era il '68. Però, quando si trattava di distribuire volantini, organizzare scioperi e manifestazioni, ero sempre pronto a guidare il gruppo».

Un precoce leader.
«Un giovanotto di Castellammare di Stabia affascinato dalla politica. Ero talmente preso, che spesso rinunciavo pure a qualche uscita con gli amici, per rimanere in sezione».

E le ragazze?
«Non so perché, ma l'impegno politico ai genitori non piaceva granché. Ricordo che un paio di papà cominciarono a guardarmi male, quando seppero che frequentavo le figlie. Ma questo è ancora niente: la mamma di una ragazzina di Vico Equense le vietò di uscire con me, perché secondo lei gli stabiesi erano tutti camorristi».

Quindi, poche ragazze.
«Poco pallone, poche feste, poca discoteca. Poi mi sono rifatto».

Quando?
«Beh, qualche anno dopo. Andai a lavorare alla redazione bolognese de l'Unità: giovane, libero e solo. Fu un periodo strepitoso dal punto di vista personale e professionale. Ero lì anche la notte tra il 3 e 4 agosto del '74, quando nei pressi di Bologna ci fu l'attentato sul treno Italicus». 

Andiamo con ordine: dal liceo di Castellammare all'Unità di Bologna il passo è lungo.
«Facevo il giornalista. Anzi, per la verità, volevo fare il giudice e così mi ero iscritto a Giurisprudenza». 

Poi, cosa le fece cambiare idea?
«Ero ancora piuttosto convinto di finire in un'aula di tribunale, quando ricevetti la telefonata di Ennio Simeone, il capo della redazione napoletana dell'Unità. Era solito leggere tutti i giornaletti e i ciclostile che uscivano dalle sezioni del Pci: da Castellammare, chiamò me e Gigi Vicinanza; e Marco Demarco che veniva da Bagnoli». 

Simeone la notò perché aveva già cominciato a scrivere, dunque.
«Facevo un giornaletto insieme con Vicinanza e Matteo Cosenza, figlio di Saul Cosenza - grande stalinista di Castellammare, duro e puro. Ma facevo anche il correttore di bozze per la Voce della Campania e, sempre con Gigi Vicinanza, lavoravamo pure nella tipografia di Boccia a Pontecagnano - un modo per arrotondare».

E la politica?
«Ero un po' disincantato rispetto alla militanza, in quel periodo; il giornalismo mi consentiva di mantenere un rapporto con quel mondo, ma senza starci dentro. Dal giorno in cui Simeone mi disse Dai, vieni a fare una prova, non andai più via: eravamo una bella squadra». 

Chi c'era con lei?
«Ricordo, tra gli altri, Federico Geremicca, con cui condividevo una casetta in via Manzoni; e poi Marco Demarco, Maddalena Tulanti, Rocco Di Blasi, Franco Di Mare, Procolo Mirabella, Eleonora Puntillo - un pezzo di storia del giornalismo napoletano. A 23 anni ero già capocronista, credo uno dei più giovani in Italia».

Di lì, l'ascesa.
«Mi chiamarono a Repubblica nell'ufficio centrale, poi al Corriere della Sera. Credo di essere l'unico giornalista che è stato vicedirettore sia dell'uno sia dell'altro».

Torniamo in via Manzoni. Chi era più disordinato, lei o Geremicca?
«Entrambi. Ogni fine settimana, scappavo da mamma a Castellammare per farmi lavare i panni e prendere del cibo. Una volta, dimenticai un ruoto di peperoni imbottiti fuori dal frigo, ce ne accorgemmo diversi giorni dopo, quando la puzza aveva invaso l'intero palazzo». 

Ma è vero che gioca bene a tennis?
«È uno sport che pratico da quando ero bambino. Con alcuni amici andavamo al Circolo nautico di Castellammare, quello dell'alta borghesia alla quale non appartenevamo, e dove ci facevano sentire degli intrusi. Giocavamo, pagavamo il campo e poi dovevamo andar via: ce lo facevano capire con una certa chiarezza, che non eravamo graditi».

Le dispiaceva tutto questo?
«Un po' sì, certo, ma nella vita bisogna anche sapere aspettare».

Che cosa c'entra il sapere aspettare con il Circolo di Castellammare?
«C'entra, c'entra... Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata: un amico mi diceva che era pronta per me una tessera onoraria. Bella parabola, no?».
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