I ricordi di Franco Salvatore:
«La prima comunione
e quell'acqua vietata»

I ricordi di Franco Salvatore: «La prima comunione e quell'acqua vietata»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 7 Luglio 2018, 11:35 - Ultimo agg. 8 Settembre, 10:58
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Maturità classica a sedici anni e laurea in Medicina a ventidue. Un piccolo fenomeno, il professore Francesco Salvatore, per tutti Franco - emerito di Biochimica umana all'Università Federico II e anima e motore del Ceinge, il centro napoletano di ingegneria genetica e biotecnologie che ha fondato nel 1984 e del quale è tutt'oggi coordinatore scientifico. Bravo, anzi bravissimo, il piccolo Franco riuscì a saltare dalla seconda media al quarto ginnasio, portando a casa tutti otto e nove. Lo stesso fece in secondo liceo, quando studiava contemporaneamente i programmi della classe in corso, di quella successiva e pure della maturità - che sostenne con ottimi risultati e un anno di anticipo rispetto al normale iter scolastico.



Come mai tanta fretta?
«I miei anni di scuola coincidevano con quelli del dopoguerra. Un periodo molto difficile, mio padre temeva che la vita lo sarebbe stata ancora di più, e allora meglio sbrigarsi a organizzare il futuro».

Doveva essere particolarmente bravo, in ogni caso.
«Certo, altrimenti non sarei riuscito a concludere il percorso scolastico a soli sedici anni. Una volta però un due lo ebbi,  ancora ci penso tanto ci rimasi male».

La interrogarono nel giorno in cui non aveva studiato, dica la verità.
«Lasciamo perdere: fui io stesso a propormi per quell'interrogazione».

Quindi si sentiva preparato?
«E certo. Pensavo di sapere tutto, come al solito. Così, quando la professoressa Cane - temutissima insegnante di matematica al Vittorio Emanuele - entrò in classe, mi offrii. Mi accontentò e, dopo la mezz'ora più umiliante della mia vita, mi rimandò al posto con un due, consigliandomi una buona ripetizione».

Bel trauma, visto che ancora ne parla.
«Da un lato, certamente sì; dall'altro, però, fu anche una lezione utile a capire che talvolta si crede di sapere tutto e invece non si sa un bel niente. In ogni caso, corsi subito ai ripari, riuscendo a chiudere il quadrimestre con una sufficienza».

Poi la scelta di iscriversi a Medicina.
«Mio padre voleva che facessi il magistrato, a studiare medicina c'era già mio fratello Gaetano, ma non riuscì a convincermi. Devo dire, grazie anche alle pressioni di Lucio Zarrilli, un mio carissimo amico che insisteva affinché mi iscrivessi a Medicina per continuare a studiare con lui». 

Lo Zarrilli che sarebbe poi diventato endocrinologo di fama?
«Proprio lui. Un giorno si studiava a casa sua e un altro da me. Abbiamo fatto così per tutto il periodo dell'università. E poi lui era molto bravo anche a fare amicizia con le ragazze, così, dopo lo studio, condividevamo pure il tempo libero».

Bei tempi, insomma.
«Molto. Li ricordo felici e spensierati. Meno l'infanzia: avevo solo quattro anni, quando morì mia madre e, con mio fratello Gaetano, ci ritrovammo soli con papà. Ma devo ammettere che, nella sfortuna, fummo fortunati».

Perché?
«Mio padre si risposò e lo fece con una donna incantevole, di cui conservo un ricordo dolcissimo. Una mamma a tutti gli effetti, per me e mio fratello, che in breve tempo riuscì a colmare il grande vuoto che aveva lasciato la nostra. Con lei papà ebbe altri tre figli: Giuliana, Candida e Marco, e non vi nascondo che a volte avevo la sensazione che volesse quasi più bene a noi che a loro».

Una grande famiglia.
«Molto unita, ma ferita prima dalla morte di mia sorella a soli trentadue anni, quando aveva già due lauree e due figli, e poi da quella di mio fratello Gaetano: lo chiamavano tutti Nino, grande studioso di biochimica, biologia molecolare e patologia della tiroide. Talmente apprezzato, che l'Accademia dei Lincei lo ricorda con un premio internazionale. Inoltre, sia a Napoli, nella zona ospedaliera, sia ad Accadia, ci sono due strade che portano il suo nome».

Dalla Campania alla Puglia, dunque.
«Un asse geografico che ha segnato la vita della nostra famiglia, così come quella di Accadia, che fino al 1927 era un paese della provincia irpina. Da lì, dopo la prima guerra mondiale, era partito mio padre Domenico. Un ragazzo del '99,  come chiamavano i nati nel primo quadrimestre del 1899, inseriti negli elenchi di leva ancor prima di diventare maggiorenni. Così, erano pronti a partire per il fronte».

E suo padre partì?
«Certo. Tornò dopo aver conquistato anche una medaglia al merito nella battaglia sul Piave contro l'esercito austro-ungarico, e portò con sé la ferma convinzione di fare il medico, forse spinto proprio dal dolore e dalle sofferenze alle quali aveva assistito al fronte».



La medicina, una vocazione diventata storia di famiglia.
«Vera passione. Ricordo l'amore e la determinazione che Gaetano metteva nello studio. Era più grande di me, andavamo d'accordo, anche se a volte un po' si approfittava del fatto che io ero più piccolo».

In che modo?
«Lui comandava e io dovevo ubbidire. Ricordo quando era piccolo balilla e io, per questione di età, sarei dovuto diventare figlio della lupa - l'organizzazione fascista dei più giovani, all'interno dell'Opera nazionale balilla. Mi opposi con tutte le mie forze, sapevo che sarebbe stata la fine per me, mi avrebbe comandato a bacchetta». 

Quanti anni aveva?
«Meno di otto. Erano gli anni in cui vivevamo sfollati a Accadia. Pur di non diventare figlio della lupa, mi inventai un sacco di storie: non avevo alcuna intenzione di ricoprire un ruolo subordinato a quello di mio fratello».

Alla fine ci riuscì?
«Sì, anche se poi di nascosto mi divertivo a prendere il suo cappello e indossarlo, fingendo di essere anch'io un piccolo balilla. In ogni caso, con Gaetano avevo un bel rapporto, pagavo solo il prezzo di essere più piccolo. E poi, faceva bene a controllami un po', perché ero abbastanza birichino. Una volta la combinai grossa».

Cosa avrà mai fatto?
«Feci saltare la cerimonia per la prima comunione. Quella di entrambi, dovevamo farla insieme».

E come fece?
«In quegli anni, la liturgia era molto severa. Dal giorno prima, oltre a non poter mangiare, era assolutamente vietato anche bere. Mi scoprirono che buttavo giù un bicchierone d'acqua, e la cerimonia venne rimandata».

Professore, quanti anni ha?
«E che importa. Non è l'età cronologica che conta, ma quella biologica. Per questo non do mai troppo peso agli anni che abbiamo e, anzi, studio proprio il concetto di gioventù neuronale».

Tanto, sempre si invecchia.
«L'invecchiamento è un concetto filosofico, sarà il tema centrale di una lezione che sto preparando».

Sull'invecchiamento?
«No, sulla longevità in buona salute. È lo stesso, ma suona meglio».
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