I ricordi di Franco Porzio:
«Volevo fare il calciatore,
mi lanciarono in acqua»

I ricordi di Franco Porzio: «Volevo fare il calciatore, mi lanciarono in acqua»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 31 Marzo 2018, 14:37 - Ultimo agg. 16 Aprile, 19:55
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Lo chiamavano il Maradona della pallanuoto, uno dei pochi che, in vasca, ha vinto tutto. Primo successo nell'84 alle Canarie, Europeo under 20. Un anno dopo sarebbe arrivato il primo scudetto con la calottina del Posillipo. E poi altri sette tricolori, due Coppe dei Campioni e il poker con la Nazionale di Rudic, che all'inizio degli anni Novanta dettò legge nel mondo. Uno degli atleti più forti di tutti i tempi, nominato pure Cavaliere della Repubblica da Ciampi e insignito del Collare d'Oro per meriti sportivi da Malagò. Eppure, Franco Porzio classe '66, oggi manager sportivo e patron dell'Acquachiara, società incubatoio di talenti a due passi da Scampia e Secondigliano da piccolo voleva fare il calciatore.

Quindi alla pallanuoto non ci pensava proprio?
«Per niente. La mia passione era il calcio. Avevo persino superato un provino per il Napoli, c'era Sormani, me lo ricordo ancora». 

E allora come mai si è ritrovato in piscina?
«Mi hanno stroncato una carriera. Scherzo... Diciamo che sono stati bravi, mio padre e i suoi amici: lo hanno fatto un po' alla volta, nemmeno me ne sono accorto e, dal campo di calcio, mi sono ritrovato in acqua. Poi, però, ci ho preso gusto». 

Suo padre e i suoi amici: di chi parla?
«Mino Cacace e Mino Marsili, due allenatori straordinari ai quali devo molto. A loro e a Paolo De Crescenzo: sono le persone grazie alle quali mi sono avvicinato alla pallanuoto. Ero piccolissimo».

Quanti anni aveva?
«Era il 1970, quattro anni, l'epoca in cui papà gestiva la Mostra d'Oltremare. Ci portava sempre lì, me e mio fratello Pino. Lui lavorava e noi guardavamo le partite, ricordo ancora il derby Canottieri-Rari Nantes. Si giocava di sera, alla fine della gara mio padre si tratteneva sempre un po' per sistemare e chiudere, e noi stanchissimi a dormire sui tavoli».

Che lavoro faceva suo padre?
«Infermiere al Policlinico, stesso mestiere di mia madre. Però aveva una grande passione per lo sport, di cui era molto competente, e infatti è riuscito prima degli altri a intravedere le mie potenzialità e quelle di Pino doveva solo trovare il modo di convincerci». 

E qui entrano in gioco gli amici allenatori.
«Una sera eravamo alla Mostra d'Oltremare, lo chiamarono in disparte e gli dissero Pasqua' portaci 'sti due. Il giorno dopo eravamo al circolo Posillipo».

Ma lei voleva fare il calciatore, però.
«Infatti. Non avevo nessuna voglia di andarci, al Posillipo. E poi abitavamo lontano, ogni giorno era un viaggio per arrivare fino a lì». 

Dove viveva la famiglia Porzio?
«A Secondigliano. Veniamo dal basso. Mamma e papà sono nati alla Sanità, tutto quello che abbiamo fatto è stato il frutto di sacrifici enormi. Quando papà ci accompagnava ad allenarci, rimaneva fuori: al circolo erano tutti figli di soci, gente di Posillipo, mio padre era talmente umile che preferiva non entrare proprio, pur essendo un appassionato e un esperto di sport. Ricordo che una volta Mino Marsili gli disse Qua tutti i genitori parlano, commentano e danno giudizi, senza capire niente di pallanuoto; tu saresti l'unico ca putesse parla', e invece non dici manco una parola. Mio padre era fatto così...».

Grandi sacrifici, quindi.
«Se Pino e io ce l'abbiamo fatta, lo dobbiamo soprattutto alla nostra famiglia. Mia sorella, ad esempio, ci preparava le borse e controllava che tutto fosse in ordine; mentre mamma e papà si organizzavano i turni in ospedale in modo che uno dei due potesse sempre accompagnarci agli allenamenti. Per non parlare poi dei nostri, di sacrifici».

Per una buona causa, o no?
«A 12 anni vincemmo il primo scudetto giovanile, una grande soddisfazione, ma non poter fare nulla di quello che facevano i ragazzini come noi pesava parecchio».

Qualche esempio?
«Eravamo adolescenti, i nostri amici uscivano e si divertivano, e noi no. Frequentavano le prime ragazze, e noi no. Tiravano tardi al bar, e noi no. In tante occasioni sono state solo la tenacia e la determinazione di chi ha deciso che deve farcela a tutti i costi a spingerci a non mollare; però davvero è stata dura. Dopo gli allenamenti, quando la sera si tornava a casa, eravamo talmente stanchi che non avevamo neanche la forza di parlare. Potevamo solo andare a dormire».

Le ragazze, però, non vi sono mai mancate.
«Mai. Peccato che non le potevamo quasi frequentare. C'era un gruppetto di fan sfegatate, che ci seguiva pure in trasferta; qualche volta, dopo la partita, soprattutto quando si vinceva, l'allenatore ci permetteva di vederle». 

Ogni tanto un po' di relax.
«Una volta la facemmo grossa. Avevamo giocato a Bogliasco, un paesino in provincia di Genova, c'erano un paio di ragazze che arrivarono fin lì. Dopo la partita, invece di andare a cena con il resto della squadra, Pino e io decidemmo di incontrarle. Lasciammo le borse ai nostri compagni, dicendo che poi li avremmo raggiunti al ristorante, però facemmo decisamente tardi: non solo al ristorante non trovammo più nessuno, ma nemmeno alla stazione. Quando arrivammo, il treno era appena partito e noi eravamo lì senza borse e senza soldi per i biglietti». 

Come faceste a tornare a Napoli?
«Per fortuna, poco dopo arrivò un'altra squadra di pallanuoto in partenza, alla quale chiedemmo in prestito il denaro. D'altronde, o si faceva così o era impossibile frequentare qualcuno che non fossero i compagni di squadra, con cui conducevamo praticamente vita comune. Quando eravamo tutti più o meno fidanzati, e si giocava in casa, il massimo della mondanità che ci veniva concessa era una cena tutti insieme al Calamaro di Bagnoli, con le nostre ragazze e l'allenatore».

Anche l'allenatore?
«Sempre presente. Lo chiamavo l'assaggiatore, perché mangiava volentieri e in abbondanza. Figura centrale per tutti noi, e non solo perché da lui dipendevano le sorti della squadra. L'assaggiatore custodiva tutti i nostri segreti, le tresche, e soprattutto i numeri di telefono delle ragazze: ovunque andassimo a giocare, avevamo le nostre fan, ma solo lui sapeva come contattarle. Si divertiva a minacciarci, diceva che prima o poi avrebbe raccontato tutto alle nostre fidanzate. Sapevamo che non lo avrebbe fatto, ma un po' di preoccupazione rimaneva sempre».

Studio e sport, difficile conciliare entrambe cose?
«Molto. Elementari e medie riuscivo a frequentarle in maniera abbastanza regolare; il liceo è stato più complicato, invece. Con mio fratello andavamo al San Tommaso d'Aquino, una scuola privata, la cui preside tifosissima come gran parte dei compagni di scuola per fortuna ci agevolava. Era proprio lei, quando a mezzogiorno venivano a prenderci per l'allenamento, a dirci di far presto ad andare via. D'altronde, diversamente non avremmo potuto fare: quei livelli di agonismo richiedono una vita a parte. E anche una testa, a parte».

Cosa vuol dire?
«Quello che dico sempre ai ragazzi dell'Acquachiara: determinazione, tenacia e caparbietà. Ogni volta che vincevamo uno scudetto, noi già pensavamo a quello successivo, al nuovo obiettivo da raggiungere, e senza scorciatoie. È così che abbiamo vinto tutto».

Qual è stata la più grande soddisfazione?
«Senza dubbio le Olimpiadi di Barcellona. Sei napoletani in squadra, tutti del Posillipo. Abbiamo vinto a casa loro, davanti al re e a quindicimila spettatori; era l'ultima sfida olimpica, lo avevano fatto apposta, perché secondo loro era la medaglia d'oro più sicura e volevano chiudere in bellezza. Il re avrebbe dovuto solo metterla al collo degli atleti spagnoli. Alla fine della partita l'ho visto andar via di nascosto, senza neanche assistere alla premiazione. La nostra».
 
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