Cristiano, il manager in cella cento giorni: «Tutta colpa di una reflex»

Cristiano, il manager in cella cento giorni: «Tutta colpa di una reflex»
di Maria Pirro
Venerdì 16 Novembre 2018, 07:00 - Ultimo agg. 09:21
4 Minuti di Lettura
Il manager riemerse dall'ufficio e passò accanto al carcere, due blocchi di cemento per 300 detenuti mai incontrati. Non conosceva quel luogo costruito nel 1992 con una sezione di alta sicurezza (la AS2) destinata ad anarchici e sovversivi, ma Cristiano Lega ci sarebbe stato per oltre cento giorni, dietro le sbarre, negli ultimi tre anni, senza dover scontare alcuna pena. Recluso per scelta o istinto, forse per necessità.

Può sembrare strano che un uomo libero e sportivo, di neanche 40 anni, decida di fermarsi davanti a un muro, anziché accelerare con la sua moto, una Honda Transalp. E invece, nel 2015, bussò al citofono dell'istituto, e chiese di entrare. «Non so ancora perché ma quella struttura grigia e imponente, spesso circondata dalla nebbia, a Ferrara, dove mi ero trasferito per inseguire una opportunità di carriera, esercitava su di me un fascino incredibile. Ovviamente, la risposta alla mia richiesta di essere ricevuto fu immediata, e negativa. Ma poi ho insistito, insistito, insistito e ho scoperto che si svolgeva un laboratorio teatrale nella struttura e sono riuscito a parlare con il responsabile del progetto per propormi come fotografo in sostegno alle loro attività». Altro no, però il giovane economista, originario del Vomero, non si è mai dato per vinto. «La curiosità iniziale mi ha portato a documentarmi e appassionarmi al contesto penitenziario».
 
​Per i primi mesi, lui è stato dentro incontrando esclusivamente il direttore e gli educatori, solo dopo gli è stato concesso di portare con sé una reflex. E, nel 2016, ha realizzato Prove libere con il regista Horacio Czertok, entrando di fatto a far parte della compagnia. Lo spettacolo Me che libero nacqui al carcer danno, ispirato alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, è andato in scena al teatro comunale di Ferrara. «Commovente l'ansia per l'esibizione davanti a tanta gente (uno mi ha detto che neanche durante il periodo della latitanza aveva avuto tanta paura)». Attori, tutti protagonisti. «Dietro le sbarre per reati diversi, uxoricidio, omicidio, droga, trasporto illecito di clandestini in una cella frigorifero... Alla fine della rappresentazione tutti eravamo felici: loro sentivano di avercela fatta, e noi, chi più, chi meno, sentivamo di aver fatto qualcosa di buono. Uniti come mai, come se fossero quasi amici, anche guardie carcerarie e detenuti». E, a quest'esperienza, ne è seguita un'altra nel quartiere Gad, zona ad alto rischio. Emarginazione, isolamento e separazione, anche fisica: temi ricorrenti.

Quest'anno Lega ha curato il progetto Limbici, che tiene insieme un corso di fotografia per i detenuti e un reportage tra i detenuti, «dalla prospettiva inedita», spiega, perché composto da ritratti realizzati in uno studio allestito dietro le sbarre, «sfruttando una parete bianca e dando risalto alle persone, non più al contesto». Lega punta tutto sulla «manifestazione dei propri pensieri e specchio privilegiato di sentimenti individuali e collettivi. Fare un ritratto o farci un ritratto svela il nostro modo di guardare agli altri e a sé stessi, mettendo in gioco la sensibilità e la cultura di chi lo realizza. Si tratta di un lavoro che richiede tempo e perizia tecnica, in controtendenza con i selfie.

Gli stessi detenuti hanno provveduto agli autoscatti e a fotografarsi tra di loro, utilizzando esclusivamente il corpo per raccontare le proprie emozioni». La mostra è stata esposta il 5 e 6 ottobre nella piazzetta centrale del carcere di Ferrara nel programma del Festival di Internazionale.

L'economista ha al contempo lasciato l'incarico in azienda, si è dimesso: «Continuo a svolgere il classico lavoro di ufficio, ma per una cooperativa sociale. Ciò significa, da un lato, niente quattordicesima, stipendio decisamente inferiore e senza grandi possibilità di carriera; dall'altro, dedicarmi alla fotografia come strumento potente che, a volte, riesce addirittura a smuovere le coscienze».

Napoli, la sua città, resta sullo sfondo. «Ero demotivato, purtroppo non avevo modo di mettere in pratica quanto appreso con la laurea in economia, un master, tanti corsi effettuati e soprattutto non avvertivo di poter esprimere al meglio la grande energia che avevo dentro di me». Ma la sua non è una storia triste. È anzi la storia di un viaggio, e il viaggio è il destino, il ritorno la meta. «Napoli è meravigliosa, amo la sua arte e il mare alla follia». Cristiano è un nuotatore e pratica windsurf da sempre. «Ritorno a farlo, appena posso e ci sono le condizioni: è l'occasione per mantenere il contatto con la cultura che mi porto dietro e di cui vado fiero». Qui è nato, del resto, anche il suo primo progetto fotografico, Il cuore della strada, o scugnizzo. «Il simbolo di una disperata determinazione per essere ciò che si è: persone, uomini e donne con ideali, valori, sogni e sentimenti. Dentro di me, ho sempre sentito l'esigenza di raccontare qualcosa. Il carcere mi ha aperto inaspettatamente una porta».
© RIPRODUZIONE RISERVATA