L'«Ippocrate napoletano» e l'epidemia che colpì il regno nel 1764

L'«Ippocrate napoletano» e l'epidemia che colpì il regno nel 1764
Sabato 25 Febbraio 2017, 18:59
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«Fu insigne per vasto e vario sapere / fu gloria e vanto delle mediche discipline/ l‘evo lo disse Ippocrate napoletano», si legge sulla lapide ottocentesca che ricorda Michele Sarcone nel suo paese natale, Terlizzi, in provincia di Bari. Un secolo dopo, a rendere un nuovo, doveroso omaggio al grande medico è il Museo delle Arti sanitarie di Napoli, l’istituzione che ha la sua sede negli “Incurabili”, ovvero l’ospedale dove il giovane aspirante dottore venne a studiare, si formò e si fece apprezzare sia come studioso sia come docente del celebre Collegio medico.

La straordinaria figura (pressoché sconosciuta ai più) di quello che è considerato uno dei padri dell’Epidemiologia ma anche il difficile contesto storico nel quale si trovò ad esercitare la professione – anni in cui Napoli e il resto del Regno furono letteralmente devastati da continue quanto violentissime epidemie, in primis quella detta “delle febbri putride” – è stata rievocata nel corso di una conferenza-dibattito con il docente universitario Gennaro Carillo (Suor Orsola Benincasa), il direttore generale dell’Asl Na Centro dottor Elia Abbondante, il direttore AOU Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Maurizio di Mauro, il presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia Silvestro Canonico, e il professor Gennaro Rispoli (primario chirurgo nonché fondatore e direttore del Museo delle Arti Sanitarie). 

Un ulteriore spunto per la commemorazione di uno dei grandi protagonisti della storia della Scuola medica napoletana è stato offerto dal perfetto recupero (a cura di Ambra restauri) di un dipinto coevo che restituisce le fattezze di Sarcone, un’opera custodita ed ora ricollocata nell’angolo della “Storia del contagio” del Museo delle Arti Sanitarie. Una sorta di “ritorno a casa”, potremmo dire, per il brillante medico di origini pugliesi (come Domenico Cotugno e Michele Troia, altri due fuoriclasse degli “Incurabili”) che a Napoli trovò anche quel calore umano che gli era mancato nei primi anni di vita (i genitori lo avevano abbandonato in un convento), oltre al fertile clima culturale e scientifico che caratterizzerà la seconda metà del Settecento grazie al proliferare di decine di cenacoli, accademie e logge che riunirono tutte le migliori menti del Regno. Eccellenze scientifiche e letterarie che, va ricordato, dovettero in qualche modo far fronte all’altra faccia della medaglia: una sterminata e selvaggia plebe che era al tempo stesso causa ed effetto di quelle tante, tantissime epidemie che sino a tutto il secolo il successivo continueranno a devastare la capitale e il resto del Regno, in primis la “peste”, anche se, come è noto, con questo termine si tendeva a indicare ogni tipo di contagio grave (in seguito poi assumerà anche altri significati).

Spiega Gennaro Carillo: «La peste, nell’immaginario dell’Occidente, non è solo una malattia; è la metafora del male assoluto, di un male universale, epidemico, che trascende i limiti della natura. Ecco perché si parla di “metafisica” della peste: perché la peste, letteralmente, trascorre ‘oltre la Physis’. Essa ha a che fare con l’idea stessa di male e con la totalità delle sue possibili oggettivazioni. Di qui, l’uso della peste come metafora delle patologie politiche e morali più gravi e radicali (lo si evince da Eschilo, Tucidide, Lucrezio, fino ad arrivare, tra i contemporanei, a Camus o a Leopardi, per il quale la "maggior per te" del genus italicum è l’indifferenza, l’accidia civile che, appunto, ‘appesta’ i costumi».

Aggiunge il professor Gennaro Rispoli: «La peste è stato il contenitore di ogni epidemia importante del passato e, se è vero che la comprensione della storia sanitaria illumina la storia sociale e politica di un popolo come sostenuto da Salvatore de Renzi, la descrizione delle ‘febbri putride’ del 1764 di Michele Sarcone lo consacra padre dell’epidemiologia. I suoi studi appaiono moderni perché sono la sintesi tra ambiente, territorio, economia ed eziologia morbos»”.

Dopo la laurea, Sarcone trovò impiego come medico a Sessa Aurunca e fu lì che il destino gli mostrò il suo volto peggiore avvicinandolo traumaticamente agli effetti delle epidemie: nel 1758 il vaiolo gli portò via i due figli. Dopo la disgrazia rientrò a Napoli e, tra l’altro, fu impegnato come medico militare (assegnato a uno dei reggimenti svizzeri che costituivano la Guardia reale borbonica) e poi come direttore dell’Ospedale militare della Trinità. E proprio queste esperienze sul campo gli permisero di sviluppare una particolare capacità di osservazione clinica e di maturare un approccio basato sull’attenta analisi della sintomatologia. Sempre nella capitale ebbe modo di assistere alle carneficine provocate dalle epidemie del 1764, che lo porteranno a pubblicare il suo primo trattato scientifico: la “Istoria ragionata dei mali osservati in Napoli nell'intero anno 1764”. Come medico e scienziato, poi, Sarcone promosse rilevanti modifiche nella diagnostica e nella terapia medica delle malattie infettive, che in quegli anni erano spaventosamente diffuse. Sarà nominato segretario perpetuo presso la Regia Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere e in seguito guiderà la Commissione di ricerche scientifiche sul violento terremoto che nel 1783 aveva colpito la Calabria e la Sicilia Occidentale (uno dei periodi sismici tra i più lunghi e disastrosi della storia geologica italiana), da quell’esperienza nascerà il volume “Istoria dei fenomeni del terremoto nelle Calabrie e nel Valdemone nel 1783”.

Va infine sottolineato come le sue ricerche e le sue intuizioni contribuirono ad aprire la via alla vaccinazione antivaiolosa, come ha spiegato tempo fa lo studioso Francesco Babudri: «Così studiò a fondo il vaiolo, spianando la via della vaccinazione di Jenner. Le sue celebri osservazioni sui mali a Napoli nel 1764 (…) sono un capolavoro in cui il Sarcone mostra la sua tempra di batteriologo e insieme di filosofo, che doveva concepire i bacilli come esseri viventi».

Michele Sarcone morirà a Napoli il 25 gennaio del 1797, a sessantasei anni, per le conseguenze di una polmonite che si era preso per andare a visitare un paziente fuori città.





L’EPIDEMIA DI FEBBRI PUTRIDE

Nella seconda metà del ‘700 la penuria di alimenti essenziali come i cereali – un’emergenza spesso ignorata dalle autorità nonostante le denunce d’illustri personalità come il futuro santo Alfonso Maria de’ Liguori – ebbe come conseguenza diretta una diffusa malnutrizione che a sua volta spalancò le porte a tutta una serie di gravissime malattie. Tra il 1760 e il 1763, ad esempio, i consiglieri del Regno, sottovalutarono sia l’allarme per gli scarsi raccolti (le stagioni erano state assai inclementi) sia le speculazioni dei soliti furbi (e privilegiati) che stavano aggravando la crisi granaria vendendone enormi quantità all’estero. Il risultato fu che nel 1764 esplose quella che passerà alla storia come la “grande epidemia di febbri putride”, che mise in ginocchio il già fragile sistema sanitario e provocò non meno di trentamila morti solo in Campania.

Scriverà Pietro Colletta: “Le inquietudini e i lamenti del popolo, i falli del governo, l’avidità dei commercianti, e i guadagni che vanno congiunti a ogni pubblica sventura, produssero danni maggiori e pericoli: si vedevano poveri morir di stento, si udivano vuotati magazzini o forni, poi furti, delitti, rapine innumerevoli”. Anche in quell’occasione, poi, su Napoli si riverseranno decine di migliaia di malconci affamati i quali, abbandonati a se stessi dalle autorità, trasmetteranno la micidiale epidemia febbrile agli altri diseredati della città con esiti fatali, soprattutto tra la primavera e l’estate. Uno scenario avvilente: “Lo spettro della città-ospedale, della città contagiata da la copia, il sudiciume e ‘1 lezzo d’innumerabili poveri vaganti giorno e notte per la città (…) e il puzzore intollerabile degli infermi e de’ cenciosi”.

A fermare la strage delle “febbri putride” sarà quella che si può considerare una delle prime missioni umanitarie internazionali della storia, come racconterà lo stesso Colletta: “S’ignora quanti morirono di fame, e quanti ne’ tumulti, gli uni e gli altri non computati per negligenza, o non palesati per senno del governo. Finalmente, saputa ne’ mercati stranieri la fame di Napoli, vennero con gara di celerità molte barche di grano, e la penuria cessò”.






 
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