Fermoposta Malinconico, De Silva: «Se basta una telefonata per far finire un amore»

Fermoposta Malinconico, De Silva: «Se basta una telefonata per far finire un amore»
Domenica 2 Settembre 2018, 20:00
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Un amore nato su Facebook. Lui poeta di 480 mesi, io, donna di 360 (sempre mesi), con un lavoro indipendente. Per lui perdo la testa e tutto il sistema cellulare. Sembra che capisca ogni cosa di me, mi toglie la corazza che indosso abitualmente, mi fa sentire importante e poi, di colpo, decide di lasciarmi. Al telefono. Perché? Perché non ero alla sua altezza. Proprio così: non ero alla sua altezza. Ovvio: se la tua amante ti ascolta, ti comprende e consiglia, ti aiuta economicamente (vacanze, sport, spese, bollette, regali a lui e alla famiglia: varie migliaia di euro), consola, porta dolcezza e passione, non serve a nulla. È un involucro di cellule (un corpo) e nulla più. Quello che non capirò mai è come una persona dai gusti così raffinati e che a sentirlo ha sempre avuto donne identiche alle fidanzate di Christian Vieri e Marco Borriello, con l'intelligenza di Margherita Hack, alla fine stia con una che non ha il culo di Federica Nargi né i neuroni di Rita Levi Montalcini. Cosa non perdono? L'ipocrisia. Sarebbe bastato dirmi: Guarda, mi piaci di testa ma non mi attiri fisicamente, invece di abbuffarmi di: Io non guardo al fisico, anzi mi piaci pure così. Forse non avrei dovuto far sapere al contadino quanto fosse buono il formaggio (stagionato) con le pere (anche in silicone).
Anonima


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C'è un fondo costante in questa lettera delusa (che intenerisce per la lucida sincerità con cui è scritta) ed è la consapevolezza della reale condizione e del destino di un amore finito. Il rimprovero d'ipocrisia (quell'insincerità che con tanta determinazione additiamo all'altro che ci abbandona, accusandolo di averci usati e gettati via, pianificando ogni cosa), è l'ultima risorsa che abbiamo per scrollarci di dosso un po' di senso di colpa che viene dal sapere che fin dall'inizio avevamo capito come sarebbe andata, perché non c'è amore (adulto: i ragazzi possono permettersi qualunque sbaglio) che dalle prime battute non dichiari la sua natura e i suoi limiti.

Se abbiamo vissuto un po', siamo di certo in grado di capire se la persona a cui diamo le chiavi di casa meriti un tale atto di fiducia o siamo noi che, nella disperata speranza che ci ami di più o ci sia semplicemente riconoscente (perché gli amori non pienamente ricambiati tentano questi poveri trucchi), azzardiamo un gesto così avventato, che con ogni probabilità ci porterà alla rovina.

È che in quel momenti agiamo senza responsabilità verso il nostro futuro, speranzosi che quel poco che riceviamo dall'altro maturi e si dilati nel tempo fino a diventare vero amore. Ce ne sono tanti, di amori già formati che cercano d'ingravidare amore nell'altro che non risponde come dovrebbe, e vanno avanti per anni, rimettendoci, raccogliendo poco e niente, fino al fallimento (o, peggio, alla rassegnazione di un amore infelice) che attesta la vanità dei loro sforzi. Funziona così: è umanamente possibile e insieme sbagliato, ma semplicemente capita.

Il vero problema è capire quando fermarsi, come arrestare il ciclo vizioso che impantana il più debole in un rapporto che produce sofferenza. Nel tuo caso, cara Anonima (e te lo dico senza intento recriminatorio), il sostegno economico che hai offerto al tuo ex (e che non a caso descrivi per categorie merceologiche, quantificandolo addirittura) avrebbe potuto rappresentare l'occasione per fregarlo sul tempo e venirne fuori prima che lui ti regalasse l'umiliazione di chiusura; perché non c'è niente ma proprio niente come i soldi, che tiri fuori la natura della gente. Essere stata contribuente del tuo uomo, averlo così variamente sostenuto in nome di una generosità probabilmente interpretata come retribuzione di una presenza altrimenti non concessa, era una condizione di cui prendere piena coscienza dalla prima richiesta (o, al massimo, dal secondo o terzo esborso) per tagliare la corda prima di ritrovarti tutto il bilancio in perdita. Perché va assecondato non solo l'istinto che c'induce a sottometterci ma anche quello, più debole ma ancora capace di mandare segnali, che vuole spingerci a dire: Non è questo che voglio, va' pure, non ti trattengo, non ti pago (la citazione eduardiana è puramente causale ma ci sta benissimo). Se ascoltiamo anche quello, impariamo a difenderci. Auguri per la tua prossima storia.

Il Fermoposta Malinconico finisce qui, con l'estate ormai alle nostre spalle. Ringrazio il direttore Federico Monga, che ha avuto l'idea, e tutti i lettori che mi hanno inviato le loro tribolazioni scritte. Ci rivediamo: non so se ancora su questa rubrica (ma sul Mattino, spesso, perché è il mio giornale da diciassette anni), e in libreria sempre. Spero di avervi tenuto buona compagnia e, con Malinconico, vi abbraccio.
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