«Pregate per me, sono in missione», il terrorista a Napoli e una strage da 1500 euro

«Pregate per me, sono in missione», il terrorista a Napoli e una strage da 1500 euro
di ​Leandro Del Gaudio
Venerdì 27 Aprile 2018, 10:07 - Ultimo agg. 22:58
6 Minuti di Lettura

Ha mentito quando ha raccontato di non essere un fervente musulmano, ha mentito quando ha raccontato la storia del video postato per gioco, ha ancora mentito quando - in lacrime - ha spiegato di non aver capito bene cosa stesse facendo. Non ha dubbi il gip Isabella Iaselli, nell’inchiodare in cella - almeno per ora - Alagie Touray, non ha dubbi nel mettere a fuoco il suo ruolo di presunto terrorista Isis. Si parte dalle menzogne, per approdare ai messaggi spediti ad almeno un paio di soggetti gambiani, che gli avrebbero dato l’input di immolarsi per il sultanato. Le bugie, dunque. Sin dal primo interrogatorio, il 21enne sostiene di non essere un fervente musulmano, un concetto contraddetto da almeno un paio di circostanze messe in rilievo nella misura cautelare. La prima: sono i medici del carcere di Benevento, dove è recluso da qualche giorno, a riscontrare sulla fronte del gambiano la cosiddetta «zebiba», una sorta di ematoma frutto delle insistenti preghiere di un credente islamico, che raggiungono un momento parossistico quando il fedele batte la fronte a terra. Di fronte all’ematoma, Touray si limita a sostenere di avere la pelle delicata, mentre per gli inquirenti napoletani il segno del suo fervore musulmano è legato anche ad altri elementi. Quali? Nella sua stanza, lì all’Hotel Circe di Pozzuoli, viene trovato un quaderno uso scolastico, che reca nella copertina la foto di un’auto e la scritta Supercar. Un particolare ininfluente, se non fosse per gli appunti interni: oltre a frasi in lingua italiana, riconducibili a un corso di istruzione seguito dall’indagato, sono annotati anche racconti antichi (in inglese e in arabo), riguardanti la Mecca, Medina, Arabia Saudita, ispirati ad Hadith, vale a dire alla vita del profeta Maometto, che costituiscono una fonte della religione islamica assieme ad altri testi. Perché allora mentire sulla propria sensibilità religiosa? 
 


Ma veniamo a quelle che vengono indicate come prove tecniche, oggettive. Partiamo dalla premessa del gip, a proposito del giuramento di fedeltà al califfo del terrore: «È chiaro che il giuramento registrato due giorni prima della chat è propedeutico ad una missione da compiere per la quale Touray ha bisogno di essere sostenuto dalla preghiera ed è consapevole di non potersi più far sentire» dai suoi soci affiliati. È un punto decisivo dell’ordinanza, che riguarda i messaggi spediti via whatsapp, due giorni dopo aver postato il cosiddetto video-testamento, quello con il dito puntato verso il cielo ad indicare l’unicità di Dio. È il 12 aprile scorso, sono passate 48 ore rispetto al giuramento di fedeltà verso Al Baghdadi, quando il gambiano di Pozzuoli scrive in inglese (lingua nazionale in Gambia) a una utenza gambiana: «Ciao, come stai e cosa stai facendo?», chiede Touray, dando inizio ad una serie di convenevoli apparentemente insignificanti con l’interlocutore. Poco dopo la mezzanotte, il discorso si fa interessante agli occhi di pm e giudice: «Non dimenticare di pregare per me, sono in missione, ho bisogno delle vostre preghiere del Corano». Immediata la risposta: «Oh sì». Poi un’altra frase chiave, almeno nell’interpretazione del giudice, quella in cui l’indagato ammonisce il proprio interlocutore a non fare passi falsi, ad essere guardingo: «Voglio dirti se io non ti scrivo, tu non mi scrivere».
 
Perché tutta questa cautela, se non c’è alcuna missione da compiere? Perché il linguaggio cifrato, il riferimento alla missione e alle preghiere, se l’unico obiettivo di Touray era quello di attendere un documento definitivo per andare a lavorare in Germania?

Inverosimile la storia del messaggio postato solo per gioco, inverosimile il pianto per una stupidaggine fatta senza dolo, chiaro che le indagini ora puntano dritto sui complici, sulla presunta rete di contatti del gambiano. È lo stesso Touray a lasciare qualche traccia, mentre in queste ore vanno avanti le indagini del Ros del colonnello Gianluca Piasentin e della Digos Francesco Licheri, per identificare i possibili complici. In un primo momento, l’indagato introduce la figura di tale Batch Jobe, un agente di cambio, con moglie e figli, tutt’altro che un terrorista, a suo dire. È Jobe ad avergli passato una «utenza di una persona da contattare in caso di problemi». Una sorta di Mister x, con il quale il discorso si fa decisamente a senso unico: «Mi aveva chiesto di realizzare il video e poi avrei ricevuto 1500 euro. Sempre la persona con quel numero mi ha chiesto di prendere la macchina e andare poi addosso alle persone per ucciderle, anche se non mi venne indicata una città. Comunque non avrei mai accettato di uccidere qualcuno».

 

Ma le cose non finiscono con questa proposta. Si torna a parlare di soldi, ancora una volta l’iniziativa viene presa sempre da Mister x: «Mi ha mandato un messaggio, che diceva: «Come stai? Ti sto mandando dei soldi in base alla decisione di Batch di darmi il tuo numero, ricordo che comunicava tramite una utenza libica e tramite il programma telegram». Eccolo il retroscena sul quale sono al lavoro gli inquirenti, in uno scenario in cui si guarda al campo in Libia, più che al Gambia, come potenziale centro di addestramento e di radicalizzazione delle cellule Isis. È a partire da questo momento che hanno inizio le prove di registrazione del video, a mo’ di selfie, con il proprio cellulare. Immagini prodotte all’interno della mensa dell’hotel Circe di Pozzuoli, che durano una manciata di secondi, il tempo di leggere la formula di rito. Lì, al centro della scena, sembra guardarsi attorno per evitare di essere notato, mentre punta il dito in cielo e scandisce il nome del califfo del terrore. Spiega ai pm: «Batch Jobe mi aveva contestato che non sembrava vero e quindi lo dovevo rifare». Ed ha inizio così la storia del messaggio testamento, roba nient’affatto paragonabile a uno scherzo, drammaticamente simile a quanto avvenuto negli ultimi tre anni in altre parti del mondo: a Orlando (Usa), a Magnaville (Francia), in Baviera, ad Ansbach (Germania), a Rouen (Francia), a Berlino, in una orrenda scia dell’orrore, segnata da un principio caro al Califfato.
E conviene ricordare l’ordine dato ai miliziani dell’Isis, per mettere a fuoco il ruolo del gambiano arrestato a Pozzuoli: «Uccidere gli infedeli nelle loro case e nelle loro famiglie», ma soltanto dopo aver giurato fedeltà ad Al Baghdadi. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA