Rossella e la cura possibile:
«Vi racconto i miei 18 anni»

Rossella e la cura possibile: «Vi racconto i miei 18 anni»
di Maria Pirro
Lunedì 12 Febbraio 2018, 09:09 - Ultimo agg. 22:36
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D'istinto, entra nel futuro. Senza voltarsi verso il passato. Ma i 18 anni che la separano dalla diagnosi di una rara malattia genetica sono tutti lì: volontà, intelligenza, passione. Rossella Passero, napoletana di Marano, ha festeggiato da poco il compleanno, superando di gran lunga l'aspettativa di vita prevista dai medici, quando la sua patologia neuromuscolare era considerata incurabile perché l'unico farmaco disponibile non ancora in commercio in Italia e sperimentale negli Stati Uniti. Ecco, invece, com'è andata.

Per la prima volta, Rossella può raccontarla: cosa ricorda di questa infanzia tormentata?
«Poco, quasi nulla. Il professore Carlo Vosa che poggiava la valigetta nella stanza in ospedale e mi faceva mangiare con la forza, peggio di un padre. E poi, mia madre che non volevo mai lasciare andare via, soprattutto al calar della sera. Le chiedevo di farmi i grattini sulla testa».

E il ministro della Salute, Girolamo Sirchia?
«Non l'ho più visto, da allora. Mi resta, però, un suo peluche».

La stanza in ospedale conserva il suo nome.
«È stata la mia cameretta, la sola finestra sul mondo: attraverso il vetro vedevo il reparto di terapia intensiva, ogni tanto veniva qualche clown a farmi visita. Li adoro ancora».

Lei è rimasta per tre anni e mezzo al Monaldi. Com'è stato il ritorno a casa?
«All'inizio una meraviglia, perché non avevo consapevolezza della malattia».

Poi cosa è cambiato?
«Ho avuto e ho momenti di tristezza in cui mi domando: perché proprio a me? Periodi, però, che supero: cerco di avere una vita normale. Difatti, esco tutte le domeniche».

Frequenta la scuola?
«Sì, l'ultimo anno del liceo linguistico con ottimi risultati ma non voglio agevolazioni dovute alla malattia. L'ho detto chiaramente ai professori quando mi hanno proposto di consegnare il compito prima, senza avere il giusto tempo per completarlo».
 
Le piace leggere, quindi.

«In particolare storie strane. Ho finito da poco Io prima di te di Jojo Moyes e quest'anno ho anche vinto un premio alla Feltrinelli».

Altre passioni?
«La storia dell'arte e dei grandi protagonisti, van Gogh su tutti. Tra i miei progetti c'è quello di andare al museo di Amsterdam, agli Uffizi di Firenze e al Palazzo di Versailles. Nell'attesa di realizzarli, porto quasi ogni mese tutta la famiglia in gita alla Reggia di Caserta, di straordinaria bellezza, come il Cristo Velato».

Ha fatto già qualche viaggio?
«Più crociere nel Mediterraneo con tappe in Grecia, Albania e Spagna. Il prossimo weekend, Firenze».

Altri progetti in cantiere?
«Continuare a studiare, ovviamente. Penso di iscrivermi al corso di laurea in Conservazione dei beni culturali oppure a Psicologia».

Ha stretto amicizie tra i banchi?
«Prima ero estroversa, ora più chiusa. Di conseguenza ho meno amici ma sono io il problema. Dipende dall'aver preso consapevolezza della malattia in modo brusco».

Cosa vuole dire alle altre persone che affrontano questa ed altre malattie?
«Di non essere come me, perché ho forza di volontà ma vivo anche periodi di cedimento totale. Agli altri dico di rimboccarsi le maniche. Ormai la vita è questa, non si può cambiare o magari si può migliorare: la scienza va avanti. Ma, nel frattempo, bisogna guardare sempre avanti, non indietro. È un motivo in più per lottare».

Sua madre dice di guardare anche indietro: c'è chi sta peggio.
«Se lo faccio, mi fermo. Non mi consola il dolore degli altri, riconosco che c'è chi ha malattie più gravi ma qualsiasi problema non si risolve guardando indietro e soffermandosi sulla propria condizione».

Quindi mai voltarsi indietro.
«Io devo pensare che posso fare un passo avanti».

Com'è la vita dalla sua prospettiva?
«Mi dicono spesso che ce l'ho con la vita. No, per niente. Mi sento fortunata grazie al prof, che mi segue da 16 anni, e a una famiglia per niente scontata, che mi fa sentire amata».

E poi?
«La vita è una sola, non si può rinascere. Se sono qui, esiste sicuramente un perché».

Che ne pensa del biotestamento?
«Ne ho parlato con mamma tante volte prima della legge: in passato ero contraria. Ma, per arrivare a certe conclusioni, fino all'eutanasia, deve esserci un motivo. Cosa fare è una scelta personale, la risposta a quest'interrogativo: te la senti di vivere?».

Sa quanto ha lottato la sua famiglia per averla qui oggi...
«Dire che sono orgogliosa è poco, anche se litighiamo tutti i giorni e più volte al giorno».

I suoi genitori hanno reso possibile quello che sembrava impossibile.
«Ciò che hanno fatto non è da tutti ed è un esempio per tutti: anche oggi ritengo ci siano farmaci innovativi che potrebbero salvare altre vite, ma non si trovano in commercio».

Che rapporto ha con Francesco, suo fratello gemello?
«Meno male che siamo eterozigoti (ride, ndr). Adesso mi dà una mano, collabora anche molto».

Avete festeggiato insieme il compleanno?
«Sì, per la prima volta. Con i parenti e gli amici di entrambi».

Il regalo più bello?
«Un carillon. L'ho ricevuto proprio da Francesco: per darmelo si è inginocchiato davanti a tutti, anche alla sua fidanzata».

Cosa vorrebbe cambiare nella realtà dove vive?
«Un po' tutto, per la verità, a partire dalla mentalità. C'è un proverbio napoletano che recita: il sazio non crede al digiuno. È così quando il problema non è il proprio. Credo lo sarebbe anche per me se mi trovassi dall'altro lato: non capirei il senso del dolore così ben descritto da Schopenhauer».

Ci sono anche altre barriere, come quelle architettoniche.
«Servirebbero più discese per le carrozzine e, soprattutto, bus accessibili. La metro funziona, guasti agli ascensori a parte. Ma siamo appena nel 2018...».
 
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