Quelle tre «formule-trappola»
che azzoppano gli atenei al Sud

Quelle tre «formule-trappola» che azzoppano gli atenei al Sud
di Marco Esposito
Domenica 19 Febbraio 2017, 10:21
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Più risorse (si torna ai fondi del 2009) e più assunzioni. Il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli mette fine ufficialmente agli anni dei tagli per il mondo universitario. Bene. Ma senza una svolta sulle formule che regolano la competizione tra atenei, la distanza tra università del Nord e del Sud - che è stata alimentata in questi anni - continuerà ad aumentare. Pochi numeri e qualche ragionamento per capirsi. Tra il 2015 e il 2016 il tetto al turnover nelle università è passato dal 50% al 60% e quest’anno sarà dell’80%. Tali valori vanno rispettati come media; ma per il singolo ateneo la possibilità di assumere professori e ricercatori va verificata in base a una formula complessa nella quale entrano in gioco i finanziamenti dei privati e le tasse pagate dagli studenti. Il risultato è che nel 2015 c’era una distanza Nord-Sud nel turnover consentito di 17 punti (35% al Sud e 52% al Nord) e nel 2016 la distanza si è confermata a 17 punti (47% al Sud e 64% al Nord).

E quella sul turnover è una delle tre formule che intrappolano gli atenei del Mezzogiorno per ragioni che nulla hanno a che fare con quanto accade all’interno delle mura universitarie e che invece molto dipendono dal contesto. Se l’Italia fosse tutta uguale, infatti, il sistema escogitato per distribuire i cosiddetti «punti organico» premierebbe con maggiori assunzioni chi attira più studenti e più fondi di imprese e fondazioni; ma è cosa nota che le famiglie meridionali hanno redditi medi sensibilmente più bassi e quindi perlopiù pagano fasce di tasse universitarie inferiori. Inoltre le fondazioni bancarie, grandi sostenitrici del sistema universitario, sono pressoché inesistenti nel meridione e quando il Banco di Napoli stacca l’assegno con gli utili, i dividendi vanno alle fondazioni lombarde, piemontesi, venete ed emiliane (Cariplo, San Paolo, Caripadova e Carisbo) che li spendono a Milano, Torino, Padova e Bologna.

Qualche cifra. A parità di iscritti, l’Alma Mater di Bologna incassa dalle famiglie 118 milioni mentre la Federico II soltanto 77 milioni. In più, Bologna attira fondi privati per 6 milioni e la Federico II per appena un terzo. Il risultato è che Bologna appare più virtuosa del maggiore ateneo del Mezzogiorno, mentre le distanze negli incassi sono interamente spiegabili con le differenze economiche tra Emilia Romagna e Campania. In base alla Costituzione, lo Stato dovrebbe ridurre tali distanze e invece ha stabilito che il turnover consentito deve essere maggiore a Bologna che a Napoli. Il risultato è che con le regole sul turnover scritte nel 2012 dal ministro del governo Monti Francesco Profumo - e applicate dai ministri successivi Maria Chiara Carrozza e Stefania Giannini - a Bologna sono andati via 406 prof e ne sono stati assunti 226, mentre alla Federico II nello stesso periodo sono andati via in 478 ed entrati in 131 (in termini di «punti organico»).


Quel che è accaduto per le due più antiche istituzioni universitarie d’Italia, si è ripetuto per l’insieme degli atenei. In quattro anni circa 600 posti di ricercatori (considerando che ogni punto organico vale due ricercatori) che si erano liberati negli atenei del Mezzogiorno sono di fatto stati trasferiti al Centronord. Si è detto che le formule-trappola sono tre. La seconda riguarda una parte del fondo premiale dell’Ffo, quella relativa all’internazionalizzazione. Più gli studenti intraprendono i viaggi Erasmus, più l’ateneo è premiato. Un principio ancora una volta sganciato dalla qualità dell’ateneo perché la scelta se effettuare o meno i costosi viaggi di studio all’estero è legata al reddito familiare più che agli stimoli universitari. La terza trappola ha un effetto economico molto forte e crescente nel tempo ed è relativa al costo standard per studente, una riforma introdotta al ministro Mariastella Gelmini nel 2010 ed entrata in vigore nel 2014.

Il costo standard, in base al quale si conteggia la parte principale dell’Ffo (Fondo finanziamento ordinario) si calcola sui soli studenti in corso mentre il valore ai fini del finanziamento dello studente fuori corso è zero. Nel Mezzogiorno gli studenti avvertono meno la pressione del concludere in tempo gli studi perché ci sono meno offerte lavorative ed è molto frequente che ci si laurei con ritardo rispetto al piano di studi. Negli atenei del Nord, invece, sono iscritti molti meridionali i quali, proprio perché sostengono i costi del vivere fuori sede, si laureano con sollecitudine abbassando il numero medio dei fuori corso. «Nell’anno accademico 2015/16 - ha sottolineato uno studio della Banca d’Italia - quasi un quarto degli immatricolati residenti nel Mezzogiorno si è iscritto presso un ateneo del Centronord (era il 18 per cento nel 2007); tale quota sale al 38 per cento se si considerano le iscrizioni al primo anno della laurea specialistica, ove, al flusso di quanti già nel ciclo precedente si erano immatricolati in atenei del Centronord, si aggiungono quanti vi si spostano dopo aver conseguito una laurea triennale nel Mezzogiorno».

A spostarsi sono i migliori: «Gli studenti che lasciano il Mezzogiorno per le università del Centronord - prosegue Bankitalia - provengono più spesso dai licei e mostrano in media voti di diploma più alti rispetto a chi vi resta».
E ancora: «Gli studenti meridionali che si spostano completano più di frequente e più velocemente dei loro corregionali il proprio percorso di studio; nel confronto con gli altri studenti degli atenei del Centronord mostrano invece un minor successo, in termini di crediti conseguiti e voto di laurea, ma un tasso di abbandono inferiore». Tirando le somme, grazie a tre formule gli atenei del Nord ricevono più fondi e più libertà d’assunzione a parità di iscritti e le distanze tra territori invece di affievolirsi si fanno più profonde. E non per cattiva sorte ma per decreto.
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